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«Non preoccupiamoci della fine del mondo ma del fine del mondo e della nostra vita»

Il teologo e scrittore si confronta con il fisico Carlo Rovelli nell’incontro “La vita ai tempi dell’apocalisse” in programma alla Fiera del Libro di Francoforte il 16 ottobre: «Se per l’uomo la morte è un muro, il cristianesimo ha cambiato quel muro in Pasqua, che significa passaggio, verso una vita piena. Scienza e fede non sono in contrapposizione»

«A che ora è la fine del mondo?», si chiedeva beffardo Luciano Ligabue in una delle sue canzoni più famose. È il pensiero che attanaglia molti, almeno in Occidente, con il mondo che danza sull’orlo dell’abisso tra guerre, disastri ambientali, calamità, virus, recessione economica. Se la cronaca, ieri come oggi, ha sempre evocato, talvolta a tinte forti, la fine del mondo, le grandi religioni, a cominciare dal cristianesimo, si sono sempre occupate (e preoccupate) del fine del mondo.

Alla Fiera del libro di Francoforte, dove quest’anno l’Italia è ospite d’onore, ne discutono in un incontro intitolato “La vita ai tempi dell’apocalisse” in programma mercoledì 16 ottobre alle 11 don Luigi Epicoco, teologo e scrittore, e Carlo Rovelli, uno dei fisici più autorevoli a livello internazionale, co-fondatore della teoria della gravità quantistica a loop e divulgatore scientifico amato da milioni di persone.

Don Luigi Epicoco, che significato ha questo dialogo?

«Mauro Mazza (il commissario straordinario nominato dal governo, ndr) nel calendario degli incontri ha voluto riservare uno spazio anche alla spiritualità. Essa non è semplicemente rivolta ai credenti, ma è il luogo dove la domanda di senso viene intercettata dal cuore di tutti: credenti, laici, agnostici. Un fisico e un teologo, in realtà, vanno alla questione di senso ed è significativo che questo confronto avvenga all’interno della Fiera del libro».

Perché la fine ci terrorizza?

«Noi siamo nati per vivere. La cosa più innaturale che noi viviamo è proprio la morte, perché la avvertiamo come qualcosa che stona con la nostra stessa esistenza. E quando pensiamo alla fine, in generale, questa cosa ci fa paura perché ci ricorda che siamo creature e che quindi abbiamo non tutto il tempo ma solo un po’ di tempo, non tutto lo spazio ma solo un pezzo di spazio da vivere. L’esperienza della paura della fine è semplicemente la paura che proviamo quando ci accorgiamo dei nostri limiti».

La fine del mondo, nell’accezione comune e laica, è evocata come un evento funesto. Qual è la prospettiva delle religioni e, in particolare, del cristianesimo?

«Se per l’uomo in generale la morte, la fine, è un muro, il cristianesimo ha cambiato il muro in Pasqua, parola che letteralmente significa “passaggio”, ossia il momento attraverso cui si passa in una vita che è ancora più viva, che teologicamente noi chiamiamo vita eterna. Quindi non è più il rapporto con qualcosa che chiude, ma qualcosa che ci conduce da qualche altra parte. Questo però non ci deve mai distrarre dal presente, da quello che noi stiamo vivendo in questo momento storico, e cioè non dobbiamo usare l’aldilà come la grande scusa per non prenderci le responsabilità dell’aldiquà, ma dobbiamo fare esattamente il contrario. E proprio perché l’esperienza che noi viviamo qui in questo momento è unica e irripetibile, questo ci riempie di grande responsabilità nel viverla nella maniera più bella, responsabile, rispettosa e profonda possibile. In questo senso, tutto ciò che attenta e ferisce la vita ha il sapore ancora più di peccato, cioè di un male che avvertiamo tutti come famiglia umana, senza essere necessariamente credenti».

La vita ai tempi dell’apocalisse, come s’intitola il vostro incontro, non è per un cristiano una condizione quasi esistenziale?

«Basterebbe cambiare l’articolo. Il problema per noi non è la fine, ma è il fine, quello che alle religioni interessa di più è il motivo. Quando una persona ha un motivo non gli interessa nemmeno più la fine, perché un motivo è sempre più grande anche di una fine. L’esperienza che noi dobbiamo fare è quella di avere di nuovo un fine per cui vivere e, paradossalmente, anche un fine per cui morire».

Scienza e fede possono andare d’accordo? E in che modo?

«L’idea di contrapporre scienza e fede credo sia obsoleta. Basta usare un po’ la ragione per accorgersi subito che scienza e fede sono due cose molto diverse perché rispondono a due domande diverse. La scienza risponde all’interrogativo su come funziona la realtà, la fede sul perché, qual è il motivo che la muove. Queste due discipline sono come due binari su cui la vita umana può scorrere, quindi sono una accanto all’altro come un aiuto formidabile, non nella logica dell’aut aut (questo o quello) ma in quella dell’et et (questo e quello). Tenere vivo questo dialogo non significa dare la patente di scienza alla fede o viceversa o sforare in campi altrui ma sentire che l’uno e l’altro possono illuminarsi vicendevolmente sia pur nella totale autonomia e diversità di ciascuna».

Steve Jobs, nel suo ultimo discorso prima di morire, disse a migliaia di giovani: “È necessario il connubio tra la scienza e l’umanesimo, tra la tecnica e la dimensione poetico-spirituale perché dal cuore esca un canto”. Lei come uomo di fede come si sente interpellato da questo appello?

«Cuore è parola biblica per eccellenza perché indica la parte più profonda dell’uomo, lì dove c’è la sintesi di tutte le sue facoltà umane, psicologiche, spirituali, affettive, razionali. Laicamente noi chiamiamo cuore la coscienza perché appartiene a tutti. È significativo che quando noi riscopriamo questa dimensione dentro di noi, abbiamo trovato un luogo di sintesi dove non c’è più contrapposizione ma armonia di cose diverse. Ed è significativo che questo appello lo faccia Steve Jobs prima di morire perché è un invito ad alzare lo sguardo e a non lasciarsi schiacciare dalla tecnica».

Fonte: Antonio Sanfrancesco | FamigliaCristiana.it

 

 

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