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Le domande che possono invertire la logica delle armi

Da due anni e mezzo si combatte in Ucraina. Ed è passato un anno da quel maledetto 7 ottobre, che ha trasformato l’intera regione mediorientale in una polveriera. Viviamo in un tempo di guerra. Il linguaggio bellico è entrato a far parte della nostra quotidianità. Si sentono tanti commenti: la guerra trova mille giustificazioni. Ci sono sempre buone ragioni per bombardare, attaccare, uccidere. Magari con droni o missili, come in un videogioco.

Come un virus, la guerra ci contagia dentro. Entra nella testa, conquista il cuore. Sui giornali e in tv la guerra è ormai raccontata come un destino ineluttabile.

Nel 1914, all’inizio del primo conflitto mondiale, Henry Bergson – uno dei più importanti filosofi del secolo scorso – accusò la Germania, Paese dal grande passato culturale e spirituale, di aver abbracciato la «meccanizzazione dello spirito». Bergson intuiva che, nell’era delle macchine, la capacità di distruzione del mondo sarebbe diventata ancora più spaventosa. «Cosa sarebbe una società che obbedisse automaticamente a una parola d’ordine trasmessa meccanicamente, che regolasse su di essa la sua scienza e la sua coscienza, e che avesse perduto, con il senso della giustizia, la nozione di verità?

Cosa sarebbe un’umanità in cui la forza brutale prendesse il posto della forza morale?”. Il circuito della violenza – quello che risponde colpo su colpo, che restituisce la ferita subita con un attacco ancora più violento – segue la logica dell’automatismo. Una volta innescato, tale circuito non si ferma più. Se non – come tanti analisti cinicamente vanno affermando – con la “vittoria finale”, descritto come l’unica possibile via d’uscita.

A un secolo di distanza, nel cuore del mondo globalizzato, l’atavica logica amico-nemico ritorna con la sua stolida pretesa: non c’e alternativa. Ciò che si dimentica è che l’essere umano è sì capace di uccidere, di offendere, di vendicarsi. Ma è capace anche di altre azioni. Di fermare l’automatismo. È capace, cioè, di essere libero.

Per chi non accetta di venire contagiato da questo nuovo virus che sta invadendo il mondo, è tempo di porre quelle domande che rimangono, al momento, ancora senza risposta. Domande che, se ascoltate, possono invertire la logica “inevitabile” delle armi. In un contesto di relazioni internazionali è comprensibile che a un atto di attacco ci possa essere una risposta, per dire all’aggressore di fermarsi. Ma c’è una misura nella ritorsione? Israele ha subito un attacco disumano. Ed è stata comprensibile una reazione anche violenta. Ma quello che sta accadendo non può essere giustificato in nessun modo dal 7 ottobre (peraltro tappa dolorosissima di uno scontro che dura da decenni).

In un clima di fortissime tensioni internazionali, le pur fragili istituzioni internazionali che sono state ereditate dal secolo scorso – a partire dall’Onu – vanno salvaguardate. Ecco dunque una seconda domanda: come si può pensare a un qualche futuro insieme senza restituire centralità alle istituzioni di internazionali? È la ragione che ci dice che affondare la pur inadeguata “scialuppa” dell’Onu significa esporsi alle intemperie di un mondo globalizzato, ma privo di punti di equilibrio.

La terza domanda riguarda le iniziative di pace. Quando c’è un conflitto, la pace sembra sempre impossibile. E se Clausewitz ha scritto che «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi», si può ben dire che «la pace è la via maestra della politica». La grandezza politica sta proprio nella creatività diplomatica. Ma dove sono i soggetti (tanto in Ucraina quanto in Palestina) che (testardamente) stanno lavorando per aprire un sentiero che, un po’ per volta, passo dopo passo, ci porti alla pace?

E infine l’ultima domanda: quali modi pacifici possiamo adottare per risolvere le diatribe territoriali? Le guerre nascono sempre sulla stessa questione: chi deve comandare dove. A chi appartiene una terra. E ci sono sempre argomenti controversi, dall’una e dall’altra parte, per dire che quel territorio appartiene agli uni o agli altri. Di sicuro, le pretese di Putin sul Donbass non possono essere perseguite mediante l’invasione di un Paese limitrofo. Un copione già visto mille volte nella storia. Ed è davvero incredibile che nel 2024, nell’epoca in cui siamo in grado di mandare i nostri satelliti su Marte, in cui parliamo di intelligenza artificiale generativa non siamo ancora riusciti a inventare una modalità per poter dirimere, con il dialogo e non con le armi, questo tipo di questioni.

Sono tutte domande che, in questo tempo di guerra, rimangono senza risposta. Avere la lucidità di riproporle è il primo passo per non accettare lo stato di fatto. E continuare a credere che gli uomini liberi sono quelli capaci di fermare l’automatismo della guerra.

Fonte: Mauro Magatti |  Avvenire.it

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