Reem Alsaleem è relatore speciale alle Nazioni unite sulla violenza contro le donne e ha da poco presentato un rapporto all’Assemblea generale Onu in tema di violenza sulle donne e sport. Il tema al centro del suo pacato, chiaro e articolato discorso è una cosa che, se non fossimo in quest’epoca dove pure un’affermazione lapalissiana può diventare motivo di offesa e innesco di dibattiti infuocati, non meriterebbe un tale dispendio di risorse. Alsaleem sostiene che la partecipazione alle competizioni di atleti maschi che si percepiscono e dichiarano donne nelle categorie femminili sia ingiusta e pericolosa per le atlete. E ha invitato tutti i Paesi membri e le autorità sportive «a non consentire agli “uomini che si identificano come donne” di competere contro donne e ragazze nelle competizioni sportive, sostenendo che ciò crea un vantaggio fisico ingiusto e aumenta il rischio di gravi infortuni per le atlete», leggiamo su infocatolica che riporta la notizia. E invece, proprio per il fatto che siamo in un’epoca dove l’ideologia più aggressiva è anche quella più lontana dalla realtà (da qui la necessità intrinseca della violenza, perché non ha attributi che la rendano in sé attraente), le persone che si sono ritenute offese ci sono state, i dibattiti si sono accessi eccome e la discussione, ancora una volta, ha mostrato l’incoerenza dei suoi sostenitori.
I termini usati dalla relatrice sarebbero stati, secondo diversi delegati, irrispettosi e offensivi nei confronti delle persone trans, mentre costringere atlete donne a gareggiare con atleti maschi con caratteristiche fisiche, psichiche e motorie irriducibilmente diverse dalle loro va accettato di buon grado, anzi addirittura incentivato e celebrato (“al Comitato olimpico di Parigi 2024 piace questo elemento”). Tra i delegati presenti i più reattivi sono stati quelli di Usa, Regno unito, Paesi Bassi, Francia, Messico e Colombia. Motivo del loro malcontento? La relatrice avrebbe utilizzato «un linguaggio “denigratorio” nei confronti degli atleti transgender. Un diplomatico americano visibilmente turbato, che indossa una spilla a forma di cuore arcobaleno sul bavero, ha affermato che il discorso di Alsaleem ha incoraggiato molestie online, abusi e disinformazione di genere». Mentre offline, sulle piste di atletica, sui ring e nelle piscine, negli spogliatoi, le donne che gareggiano in condizioni impari con persone trans, che sono uomini con una dotazione naturale diversa da quella femminile, corrono rischi concreti e misurabili, in termini di infortuni, abusi e umiliazioni per la parità di condizioni totalmente disattesa.
Questa logica che si presenta come compassionevole è la stessa che ha portato a quell‘obbrobrio legislativo in California per cui i detenuti che si percepiscono e dichiarano donne posso essere assegnati a reparti femminili, con gravi pericoli per le detenute. La relatrice Alsaleem ha mantenuto salda la posizione mostrando come il criterio dell’inclusività che sacrifica il dato biologico sia un attacco frontale ai diritti umani, in particolare quelli delle donne. E chiede, dunque, di ripartire da quello, proponendo la reintroduzione di sex test non invasivi, (il prelievo di saliva da una guancia) per verificare l’identità sessuale degli atleti: «Il linguaggio e i principi dei diritti umani devono continuare a essere coerenti con la scienza e i fatti, compresi quelli biologici». Non bastano i test sui livelli di testosterone, che può essere soppresso a ridosso delle competizioni, perché i livelli di forza maschile restano più elevati.
Nell’epoca della parità di genere urlata e pretesa anche sguaiatamente in tutti gli ambiti, nel tempo dei soffitti di cristallo da rompere per permettere alle donne di accedere ai posti di potere, ci siamo ritrovati a vederle umiliate nello sport, ambito che ha tanto contribuito alla vera emancipazione femminile e che non può esporle d’ufficio all’abuso di un vantaggio competitivo biologico e al rischio di maggiori infortuni, violenze, esclusione. Alsaleem ha criticato l’uso di soppressori ormonali negli atleti transgender maschi per consentire loro di competere nelle categorie femminili, sostenendo che questi non eliminano i vantaggi fisici associati al sesso maschile e che possono avere effetti dannosi sulla salute degli atleti stessi. Il rapporto della relatrice giordana ha suscitato consistenti reazioni perché mina i fondamenti stessi delle politiche di genere che l’Occidente sostiene e sponsorizza con forza, partendo dall’assunto che il genere sia una costruzione identitaria svincolata dal sesso biologico. Alsaleem chiede invece che lo sport femminile si basi sul riconoscimento del sesso e non dell’identità di genere. Il sesso biologico, inoltre, ha una base giuridica internazionale condivisa, mentre il confuso concetto di identità di genere no. Se di diritti umani stiamo discutendo e sono quelli che vogliamo tutelare allora, almeno, occorrerà intendersi sui termini e sulla loro corrispondenza con la realtà.
Fonte: Paola Belletti | IlTimone.org