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La guerra suicida di Israele

Israele sta combattendo con successo la sua guerra di autodistruzione. Nelle parole del generale Udi Dekel, “è evidente che la leadership israeliana vede all’orizzonte solo la guerra perpetua”, che “beneficia solo i nemici di Israele e si allinea alla strategia iraniana”. Deriva suicida. Votata all’annientamento del Nemico — l’Iran e la sua costellazione imperiale — travolgendo tutti e chiunque si frapponga fra sé e Amalek. Archetipo biblico del Male, proditorio aggressore degli israeliti. Identificato ieri con Hitler, oggi con l’Iran e terroristi arabi associati. Su domani si accettano scommesse.

Israele sopravvive alla giornata. Confida nelle bombe atomiche che non dichiara, nella potenza delle Forze di difesa (Idf), nelle supertecnologie e soprattutto nella protezione americana. Sposa la tattica del “cane pazzo” cara al generale Moshe Dayan, il riconquistatore di Gerusalemme. In modalità di deterrenza senza limiti.

C’è una ragione indicibile che spinge Israele a rischiare il sacrificio di sé. Il terrore della guerra civile. La guerra esterna serve quantomeno a rinviarla. Nell’equazione bellica non sono considerate le ricadute sulla diaspora, minacciata dalla furia antisemita, sequenza ultima dell’antisionismo predicato anche da una minoranza ebraica. Si nega così il principio stesso dello Stato di Israele protettore di tutti gli ebrei. Il suicidio è già mezzo compiuto. Avevano visto lungo i capi di Hamas pronti a sfruttare la disunione degli israeliani.

Ma forse nemmeno i più scatenati fra gli odiatori dello Stato ebraico erano disposti a considerare che Gerusalemme sarebbe caduta nella trappola al punto di rinnegare i comandamenti cui aveva legato il suo destino.

Primo. Il “cane pazzo” può permettersi solo conflitti brevi, causa esiguità demografica e territoriale. L’attuale ha già strabattuto il record della guerra di indipendenza, tra maggio 1948 e marzo 1949. Secondo. Il nemico va diviso. Netanyahu l’ha invece coalizzato aprendo finora sette fronti, minacciando di tagliare la testa del serpente iraniano.

Terzo. E implicito. L’Iran non va distrutto. È il nemico perfetto. Dunque alleato, in quanto contribuisce alla causa di Israele quale Male assoluto che minaccia di distruggerlo. Oggi persino i sauditi escludono che i patti di Abramo siano praticabili, in attesa che la tempesta si calmi e Israele inventi uno stratagemma per salvare la finzione dello staterello palestinese. Eppure Netanyahu aveva puntato tutto sull’intesa con le petrodittature del Golfo e altri vicini arabi, per stabilire una cintura di sicurezza attorno a Israele in nome della comune avversione per l’Iran.

Quarto. E strategico. Gli Stati Uniti d’America sono e debbono restare la garanzia ultima della sicurezza di Israele. La diaspora americana va coltivata per contribuire a questo scopo, insieme ai sionisti cristiani di matrice evangelicale, squisitamente apocalittici. In attesa del cambio della guardia alla Casa Bianca, le relazioni fra Washington e Gerusalemme beccheggiano. In Israele vige sempre l’interpretazione sportiva che Moshe Dayan, l’eroe dei Sei giorni, amava dare del vincolo a stelle e strisce: “Gli americani ci offrono soldi, armi e consigli. Noi prendiamo i soldi, le armi e rifiutiamo i consigli”.

Infine, decisivo. Il mantra di Gerusalemme è la deterrenza. Non può funzionare con i terroristi, agitati da frenetica vocazione al martirio. A meno di terrorizzare i terroristi. O di sterminarli tutti. Un giorno ci accorgeremo dei veleni che stiamo assimilando dal 7 ottobre. Sarà tardi. Il nuovo antisemitismo non si esaurirà con la sospensione dei massacri in corso. Né riguarderà solo gli ebrei.

Abbiamo rimosso la nostra condizione di ultima frontiera dell’Occidente, a ridosso di Caoslandia. Così ci finiamo dritti dentro. Vogliamo preoccuparcene? Per esempio. Se centinaia di migliaia di gaziani sopravvissuti alla rappresaglia di Netanyahu saranno scaraventati nel Mediterraneo, aspetteremo che ci affoghino davanti? Li trasferiremo in Albania per esser certi di non vederli? La risposta a queste domande ci dirà molto su noi stessi.

Fonte: Lucio Caracciolo | Repubblica.it

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