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Parthenope: la vita è un’Odissea, sta a noi scegliere fra muse o sirene

La vita è un’odissea, diciamo, perché l’Odissea è l’unica opera che ha la dignità di sinonimo della vita stessa. E non perché il poema assomigli alla vita, ma il contrario: la vita cerca di assomigliare all’Odissea, un viaggio con biglietto di solo ritorno in cui nella prima metà l’eroe deve liberarsi sia della guerra a cui non avrebbe voluto partecipare, sia del mare, elemento liquido e pericoloso, il divenire, lo scorrere del tempo, tutto ciò che porta alla morte; e nella seconda metà deve provare a conquistare la terra ferma, ciò che non è soggetto al corrompersi di tutte le cose, ma resta “fermo”, vincendo il tempo e quindi la morte. Se questo è vero, come ho cercato di narrare in Resisti, cuore – L’Odissea e l’arte di essere mortali, allora tutti noi incontreremo prima o poi e più volte le Sirene.

Non è un caso che una delle avventure del poema che tutti ricordano è quella delle Sirene, appollaiate su un’isola in attesa.“Appollaiate” in senso stretto perché a differenza di un immaginario posteriore a Omero, definitivamente consacrato negli ultimi due secoli da Andersen e Disney, le Sirene sono rapaci con il solo volto femminile. Niente di eroticamente seducente come siamo abituati a immaginare: la loro pericolosità è tutta nella voce e in ciò che promette. In una società come quella omerica in cui la donna è subalterna all’uomo, che delle donne agiscano da sole, non siano integrate nel sistema e abbiano un proprio messaggio privato le rende pericolosissime. Non è un caso che la tradizione successiva abbia identificato una di esse in Parthenope, nome che significa “dal volto di vergine”, ragazza che appartiene a un mondo selvaggio e da controllare, non ancora funzionale alla comunità.

La bellezza, che è generare vita che non muore, in questo mondo è allora pericolosa, perché può diventare mera seduzione. Le Sirene sono infatti, a differenza delle Muse, figlie di divinità primordiali del mare, e qualsiasi sia il significato originario del loro nome (attrarre, splendere, incatenare, suonare…) è certo che, come il mare per il mondo omerico, sono un pericolo mortale. Le Sirene fanno professione di sapere tutto come le Muse, cosa che in una cultura orale significa conoscere la verità. A chi si ferma ad ascoltarle promettono il mondo intero, il tempo intero. Ma è incantesimo, non canto. E aggiungono che possono cantare proprio le vicende dell’eroe (nel mito c’è già l’algoritmo delle piattaforme che canta per noi tutto quello che vogliamo e proprio quello che ci piace): «Noi sappiamo tutto ciò che accadde a Troia».

Strano concerto e strana seduzione per uno che ha passato 10 anni a combattere una guerra a cui non voleva partecipare e da altri 10 tenta di tornare a casa. Che seduzione è sentirsi raccontare esattamente ciò che ha vissuto e da cui sta fuggendo? Le Sirene stanno promettendo a Ulisse l’immortalità: se l’eroe è entrato nel canto epico, che in un mondo del tutto orale è la verità, la vita memorabile, la vita che non muore, allora Ulisse è già diventato immortale. La seduzione è quella di essere eterni, di non poter più morire, ma si tratta solo di un’illusione a cui resistere: legarsi all’albero della nave per non essere legati dal nulla. Tutto il viaggio di Ulisse si scontra col grande incantesimo che ci impedisce di fiorire: la paura della morte e quindi la fame di immortalità. Ma Ulisse porta avanti un’altra ipotesi: l’immortalità non è “isolata”, in mezzo al mare, non è un incantesimo, ma è terraferma, è Itaca. È nella vita reale e mortale, scelta e vissuta sino in fondo, che si trova la via per l’immortalità: il divenire non si vince perdendosi dentro ad esso, in mare, ma facendo emergere la terraferma dal mare.

Chi ascolta le Sirene dimentica ogni cosa e va a sfracellarsi contro gli scogli su cui sono appollaiate, un’isola non cosparsa da fiori,come pare a distanza, ma dalle ossa di uomini naufragati e divorati da questi avvoltoi canori. Un incantesimo che invece di dare la vita la toglie, a differenza del canto delle Muse che ispira la vita. I Greci sapevano che la bellezza è un’aporia senza soluzione: ci sono le Sirene e ci sono le Muse, e l’uomo ne subisce il fascino senza scampo. Se Ulisse riesce a salvarsi non è per merito suo, ma di un’altra donna, Circe, che appartiene allo stesso mondo magico di donne isolate e pericolose, che gli svela come vincere l’incantesimo. C’è quindi una magia che seduce, lega e uccide: paradisi artificiali, sostanze senza sostanza. A questo inganno che diventa disinganno ci si può sottrarre solo facendosi sordi o legandosi. C’è però anche una magia che incanta senza ingannare, quella delle Muse. Sta a noi scegliere.

Narrazioni successive all’Odissea ci dicono che le Sirene, incontrate e superate da Ulisse proprio nei pressi del golfo di Napoli, si suicidarono e il corpo di una di loro, Parthenope, venne depositato dal mare alla foce del fiume Sebeto, dove sorgerà la città omonima, poi ribattezzata “Città nuova”, Neapolis, Napoli, dove è ricordata dalla statua pisciforme in piazza Sannazzaro, a Mergellina.
Se la città sorge sul corpo di una Sirena ha allora fondamenta di incanto e di morte. Purtroppo dietro a miti di città fondate su corpi femminili, si nascondono spesso storie di sacrifici di vittime innocenti, poi divinizzate. Parthenope è tutto questo: creatura divina del mare e del divenire, voce che incanta e promette un’impossibile immortalità («vedi Napoli e poi muori» non nasconde forse questa ambigua promessa?), vergine che si sottrae al controllo dell’uomo che vuole dominarla, corpo esanime che dà vita a una città fatta di tormento ed estasi.
Però se la vita è un’odissea a noi forse è concesso, come al suo eroe, di ascoltarne l’incanto, la promessa, il miracolo, senza impazzire e morirne, e proseguire verso casa. Chissà.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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