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Dal Trono di spade al Filo di Arianna”: come disarmare il cuore dei giovani

Nei fatti di cronaca attuali, tormenta il ripetuto e cruento brillare di lame: forbici, cacciaviti, coltelli, in mano a giovanissimi. Possiamo fare qualcosa?

Mi tormenta, nella cronaca recente, il ripetuto e cruento brillare di lame che tagliano e forano corpi innocenti. Forbici, cacciaviti, coltelli che tolgono la vita con crudeltà incomprensibile in mano a giovani che tutto sembrano tranne che assassini spietati, eppure infieriscono sulla vita indifesa con furore.

Se fosse follia saremmo impauriti ma un po’ sollevati (lo è il nostro cervello quando cerca consolazione davanti all’ignoto), ma non è follia, queste lame non rivelano casi psichiatrici ma una parte trascurata se non rimossa nella vita personale e sociale.

Quando un simbolo si impone all’attenzione generale è per rivelarci qualcosa di noi stessi e del nostro rapporto con il mondo, dalle manifestazioni di finzione come il Trono di spade, titolo dato proprio in Italia ai libri e alla serie tv (Game of Thrones), in cui la spada è il segno di un mondo in cui tutto è sottomesso alla sete di potere e alla violenza, per arrivare alla perturbante realtà delle onnipresenti lame usate nei recenti assassinii perpetrati soprattutto da giovani.

Viviamo tempi taglienti, e a farne le spese sono spesso donne e bambini, vittime sacrificali di Paura e Rabbia (di esistere senza un perché e un per chi), due sentimenti che, in giovani incapaci di maneggiarli e disattivarli, producono un feroce risentimento contro la vita stessa. Schiere di risentiti non possono che affilare le lame. Possiamo fare qualcosa?

Vedo questo risentimento nei ragazzi. La rabbia e la paura non accolte dagli adulti, fanno scivolare i ragazzi nell‘odio contro una vita in cui non ci si sente amati e chiamati, ma stretti e costretti. Non abbiamo tempo e strumenti per ascoltare e disattivare il risentimento, e tagliamo (altra lama) corto sulle questioni di fondo, non abbiamo quasi nulla da dire sul perché valga la pena essere qui che non sia, di fatto, godere a spese degli altri e del mondo. Non c’è gioia, non c’è tenerezza, tutto è orrendo (dal latino «appuntito») e pauroso come l’estetica di Halloween. Di fronte all’indifferenza, all’ipocrisia e al moralismo degli adulti, la rabbia e la paura crescono, ed esplodono in risentimento (il genere musicale più diffuso tra i ragazzi ne è la coerente colonna sonora). La mano impugna una lama e perfora la vita innocente e, a caso o con premeditazione non importa, la fa a pezzi, perché la vita è orrenda e l’altro una sua incarnazione.

Ho notato che non sempre la lama si rivolge fuori ma volte si ripiega sul proprio corpo auto-sacrificato e ferito per il senso di colpa («orrendo» sono io) o per sentire il dolore in un punto anziché nell’anima, cioè dappertutto. Non è l’arrotino ad affilare le lame ma il risentimento, lame forgiate da ciò che dilania dentro.

Come disarmare il risentimento? «Affilando» il pensiero, e il pensiero si affila solo sulla mola del cuore, cioè quando pensare è «farsi carico», come quando diciamo «ti penso».

Pensare viene infatti dal latino «pesare»: pensare è soppesare, cioè sollevare ciò che pesa sull’altro fino a schiacciarlo. E sull’altro pesano domande inespresse o inascoltate, rabbia e paura. «Nessuno mi ascolta», «Ho questa rabbia che mi divora», «Ho questa paura che mi paralizza» sento dire spesso ai ragazzi. Frasi che traduco così: «Tu, adulto, non mi pensi. Non ami le mie ombre e io non riesco a vedere la luce che le ha proiettate e che tu forse vedi».

Il Joker del recente film mostra un doloroso autoritratto del giovane risentito che spera di guarire da paura e rabbia grazie al fatto che qualcuno, finalmente, sembra amarlo. Solo così può smettere di fingersi Joker, e ritrovare il suo vero nome, che nessuno ricorda, Arthur.

In questi anni ho conosciuto ragazzi senza nome, il cui risentimento, covato a lungo, esplodeva poi in violenza verbale e psicologica: ferivano qualcuno in maniera proporzionale a quanto erano feriti dentro. Ma perché rabbia e paura non ristagnino nel cuore, bisogna aprire un varco, serve che qualcuno le pesi e le pensi, perché il risentimento è relazione primaria con la vita, ci lega (cioè può essere legame o catena) tutti, perché tutti siamo stati messi nella vita senza permesso e la vita schiaccia chi non si sente voluto. L’educazione se non parte dal dolore dell’altro, aiutandolo ad accogliere rabbia e paura, diventa un insopportabile paternalismo o moralismo.

La prima libertà da conquistare è quella dalla rabbia e dalla paura di vivere. Il risentimento, non riconciliato, fa da coltello più o meno mortale (senso di colpa, sarcasmo, invidia, violenza…), ma accolto, fa da aratro (apre un solco fecondo, diventa richiesta d’amore). Solo chi impara a perdonare la vita, per come è, può amarla. E l’amore permette a chi si sente impotente di non scegliere la violenza come via per potere qualcosa sulla vita, come accade a Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, il cui nome significa appunto «tagliato», «diviso», «separato». Il risentimento lo porta ad «accettare» (scure non amore) due donne, giustificando con lucidità il delitto. Ma proprio quel delitto lo costringerà a fare i conti con ciò che non ha mai voluto affrontare: la sua divisione interna.

Abbiamo noi oggi la cultura per curare queste scissioni interiori? Non lo so, ma se la lama rivela la ferita interna di chi la usa, possiamo provare a immaginare il suo contrario simbolico. Il contrario di tagliare è unire, congiungere, stringere… Il contrario è allora il filo. Non più il filo della lama, ma il filo che cuce, lega, sutura. All’opposto del filo della lama c’è il filo del discorso, del pensiero, del racconto: nessi, legami, nodi. Tessere la vita. Dal trono di spade al filo di Arianna: tenere il filo per chi, all’altro capo, combatte il mostro nel suo labirinto personale, perché sappia, in mezzo al buio e alla solitudine che tutti sperimentiamo, che potrà sempre tornare alla luce.

Così accade anche a Raskol’nikov in prigione, dopo aver ricevuto l’inattesa visita dell’amata Sonia: «Era risuscitato, e lo sapeva, lo sentiva pienamente con tutto il suo essere… La sera di quello stesso giorno Raskol’nikov giaceva sul tavolaccio e pensava a lei. Quel giorno gli era sembrato che tutti i forzati, prima suoi nemici, lo guardassero altrimenti. Egli stesso si metteva perfino a parlar con loro, e gli rispondevano affabilmente. Forse che ora non doveva mutare tutto quanto?».

Il «tagliato» da sé e dagli altri diventa «unito» a sé e agli altri. Basta che un filo ci leghi alla vita, ci faccia sentire voluti: che io sappia e senta che fuori dal labirinto o dalla prigione c’è un amore che mi vuole, che mi chiama. Solo allora troverò il coraggio di affrontare i mostri che ho dentro e non trasformerò gli altri in quei mostri.

Spero che anche gli autori dei delitti possano trovare questo filo.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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