Aprile 2021. “Non so se hai saputo di Nadia. È stata aggredita l’altra notte in casa in Perù, ma non si sa da chi. Ha una frattura al cranio e oggi la operano a Lima. Purtroppo non ci sono altre notizie. (…). Nadia non ce l’ha fatta. Preghiamo che salga veloce vicino al cuore di Dio”. Ottobre 2024. “Sammy Basso è morto. È stato chiesto al Vescovo di presiedere il suo funerale”. Messaggi che cambiano la vita per sempre, oltre che la giornata. Nadia De Munari, cresciuta nella periferia di Schio, è stata missionaria in Perù dell’Operazione Mato Grosso per 20 anni. Quando nessuno voleva aprire la comunità a Nuevo Chimbote disse a padre Ugo De Censi: “Se vuoi, vado io”. Queste sue parole piene di coraggio e libertà sono rimaste quasi come un testamento. Sammy Basso, scienziato e ricercatore vicentino affetto da progeria. Per tutti noi che l’abbiamo conosciuto era semplicemente Sammy, uno dei nostri ragazzi che ha fatto della sua croce, un punto di forza per raccontare al mondo che chi ha disabilità, malattie o semplicemente è diverso dallo schema che abbiamo, può essere una risorsa. Sammy è vita, ancora oggi, quasi un mese dopo l’ultimo “scherzo” che ci ha fatto, perché Sammy era “nostro”, ma ora è realmente di tutti. Era la coscienza. Niente di meno, ma del resto non poteva che essere quello il suo ruolo. Gli si voleva bene e basta, come alle persone migliori, alle quali basta un secondo per affascinare profondamente chiunque.
Nadia e Sammy. Cinque lettere più cinque. Una storia più un’altra. Bellissime. La storia di Nadia è stata purtroppo il mio primo comunicato stampa, perché “tu la conoscevi, sei cresciuta nella stessa parrocchia e conosci l’Operazione Mato Grosso”. Sammy, purtroppo, il mio primo vero funerale mediatico con il ruolo di ufficio stampa della diocesi. Lucidamente, per grazia, non per merito, in entrambi i casi mi sono trovata in una situazione di continuo discernimento. Con un’impressione, fisica, molto forte: stare su una soglia. Da una parte il diritto di cronaca, dall’altra il bisogno di tutelare famiglie con un enorme dolore. L’urgenza di comunicare nel modo migliore possibile vite che meritavano di essere restituite nella loro bellezza e insieme la fatica di trovare la misura per rispettare il lutto. La soglia è sempre uno spartiacque. Segna un prima ed un dopo, è tra una possibilità ed un’altra. È una scelta precisa, ma anche uno stile di vita, la possibilità di esserci, di essere pronti, vigilanti, attenti. Ma può anche diventare una specie di bolla nella quale si resta, inermi o pavidi, mentre la vita continua.
Ma un giornalista non può rimanere solo a guardare perché qualcosa deve “produrre”. Che sia cronaca, analisi, riflessione, un pezzo deve saltar fuori. E il lutto, soprattutto quello di un figlio, è uno spazio particolare. Per chi fa il nostro lavoro è un banco di prova nel quale ripensare – insieme ai colleghi – le notizie e i dettagli da raccontare, ma qual è il limite, la vera soglia entro cui rimanere per essere fedeli alla professione senza scadere nel voyerismo? Cosa significa darsi un limite oppure varcare una soglia senza essere invadenti? Abbiamo a che fare con le persone, non solo con numeri, ma come mettere in circolo la nostra umanità e custodire l’umanità di chi incontriamo? Non pare essere solo una questione etica, tantomeno solo di fede cristiana, quanto piuttosto la ricerca dell’umano che, forse, abbiamo perduto, e il desiderio di affrontare situazioni complesse con un approccio diverso. Quasi facendo un passo indietro, che non è di rinuncia, ma di delicatezza.
Stare sulla soglia e attendere il momento opportuno può significare arrivare secondi. Ma secondi nel lancio di una notizia, vuol dire arrivare primi nella relazione e nella vita. È attendere i tempi dell’altro. Mi tornano in mente le donne ai piedi della croce. Stare e condividere, com-patire e raccogliere con tutta la delicatezza e la discrezione del caso, ciò che viene condiviso. Ogni volta è stato come toccare la luce di una vita bellissima, che lascia un’eredità importante a chi resta. Non solo a chi ha conosciuto direttamente quella vita, ma anche a chi la conoscerà dopo. Arrivare dopo o con più calma, permette forse di poter davvero vedere una luminosità che la fretta nasconde perché va cercata, contemplata e amata. E per amare e servire l’Amore serve il tempo giusto.
Giornalista e responsabile dell’ufficio stampa della diocesi di Vicenza
Fonte: Naike Monique Borgo | Avvenire.it