Il 6 novembre 2024, ricorre il trentesimo anniversario della sottoscrizione della “Carta della transdisciplinarità”, redatta da figure eminenti del pensiero moderno quali Basarab Nicolescu, Edgar Morin e Lima De Freitas. Si tratta del punto di approdo di un lungo cammino metodologico durato secoli: da pre-disciplinare, a proto-disciplinare e poi ancora disciplinare, multidisciplinare e interdisciplinare. Firmata (e adottata) nel 1994 in occasione del Primo Congresso Mondiale della Transdisciplinarità (Convento di Arrábida, Portogallo, 2-7 novembre 1994) la Carta si propone come approccio che intende superare i confini delle singole discipline, cercando un dialogo tra ambiti differenti. Non ci ritroviamo, tuttavia, al cospetto di un semplice attraversamento (o compenetrazione, intersezione, collaborazione) di saperi. Bensì di un primo tentativo di “transcendenza” degli stessi verso un’integrazione e una sintesi superiore, nella cornice di un fondamento etico-morale, per la promozione (e l’affermazione) di uno sguardo globale e integrale sull’Umano.
Alcuni principi fondamentali della Carta possono essere così riassunti: (i) l’essere umano non può essere considerato una mera struttura formale e la sua dignità è da considerarsi (e deve essere riconosciuta) quale parte di un superiore ordine cosmologico-universale; (ii) ogni tentativo di ridurre la realtà ad un solo livello, governato da una sola logica, è insufficiente: non si può sfuggire il confronto con la dimensione etica, spirituale e trans-storica della realtà stessa; (iii) l’economia deve essere al servizio dell’essere umano e non il contrario; (iv) è cruciale coltivare razionalità, attitudini e atteggiamenti aperti; (v) è necessario rivalutare il ruolo dell’intuizione, dell’immaginazione e della sensibilità nella trasmissione delle conoscenze, educandosi a insegnare, contestualizzare, concretizzare e globalizzare.
Si intravede, dunque, come il concetto di “transdisciplinarità” affondi le sue radici in una peculiare e inderogabile esigenza della contemporaneità: governare e orientare la complessità crescente senza però rinunciare ad uno sguardo alto e profondo. L’approccio “transdisciplinare” introduce ed implica, infatti, il necessario riconoscimento dei diversi livelli di realtà e di percezione della stessa (fenomenico e noumenico), insieme alla necessità di includere nella conoscenza anche elementi metempirici (quali la spiritualità, la filosofia, la psicologia, l’arte: in una formula la “soggettività umana”), aspirando a ripristinare una forma di sapere che non sia soltanto strumentale o specialistico, ma che sappia connettere il particolare all’universale, il contingente all’eterno, l’immanente al trascendente.
Si tratta, quindi, di un coraggioso tentativo di recupero di una visione “sapienziale” della conoscenza che si erge in un’epoca — la nostra — segnata dall’accumulo esponenziale di informazioni e nozioni che, tuttavia, non riescono più a trasformarsi in sapere vivificante (inteso come via capace di accogliere e promuovere il “bene più grande”), nell’accezione socratica, aristotelica e spinoziana, e, più ancora, nella visione soteriologica delle grandi tradizioni spirituali, in particolare di quella cattolico-cristiana. Si va facendo, infatti, sempre più concreto il rischio che la “conoscenza” si configuri come “estropianesimo”, ovvero fiducia cieca nell’illimitata potenza della tecnologia e del progresso che riduce il sapere a mero strumento di dominio, controllo e potere. La situazione appare ancora più confusa (ed allarmante?) se — più in generale — proviamo a riferirci agli effetti dell’ideologia Tescreal (transumanesimo, estropianesimo, singolaritanismo, cosmismo, razionalismo, altruismo efficace e lungotermismo), un patchwork informe e confuso di pseudofilosofie ed ideologie spiritualistiche post-moderne, un “vitello d’oro declinato” in chiave tecnocratica da una ristrettissima élite tecnologia e finanziaria che sta facendo dei luoghi dell’innovazione (Silicon Valley su tutti) la vera periferia dell’umano.
Ciò prova che abbiamo smarrito il senso, l’entelechia, il noùs. Non solo: abbiamo perso di vista l’archè, ovvero la ricerca del criterio di razionalità che ha fondato e sorretto lo sviluppo di ogni pensiero filosofico. Concludendo: abbiamo perso di vista l’Uomo; quell’Uomo che ha ispirato l’umanesimo mediterraneo, ellenico, magnogreco e rinascimentale; quell’Uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio e da esso sottoposto al primato delle leggi del bene e del male; quell’Uomo che è cuore del “mistero” della Creazione e della Vita; quell’Uomo che ha nella “Verità Universale” la propria verità particolare e che oggi, invece, sta disperdendo la propria identità, sopraffatto dall’avvento della società artificiale.
In definitiva, abbiamo dimenticato che tutto è dalla “Sapienza”: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33-36). Abbiamo dimenticato che tutto è dal “Logos” (“In principio era il Logos”) primigenio ed eterno, che fonda e sostiene il divenire incessante dell’Universo e della Storia. E dal quale discende ogni altro logos. Senza di Esso tutto è kaos e niente è kosmos. Poiché nulla è da se stesso. Nulla è dalla conoscenza per la conoscenza. Nulla è dalla scienza per la scienza. Nulla è dalla tecnica per la tecnica. Tutto procede dal “Logos” ed al “Logos” deve tendere e ritornare. Ritenere, quindi, che le scienze — ogni scienza, singolarmente o collettivamente considerata — possano esistere da se stesse è vano miraggio di illusoria e distruttiva onnipotenza, che la Storia svelerà come tale. La contemporaneità, purtroppo, si riscopre, oggi, fin troppo carente del principio di realtà e, di conseguenza, anche del principio di normatività e autenticità. “Nihil est in intellectu quod non fuerit prius in sensu” ci ricorda Tommaso d’Aquino nel suo noto assioma peripatetico.
Nel trentennale della Carta dobbiamo, dunque, affermare che non basta il ricorso (sia pur lodevole) alla sola “transdisciplinarità”. C’è bisogno di un ulteriore salto paradigmatico. Ciò che serve, oggi, alla storia, è il recupero di un approccio che — attingendo alla tassonomia dell’innovazione armonica — potremmo definire “maieutico-trascendente”. Non si tratta di una questione gnoseologica o epistemologica. Il problema è di natura ontologica. Abbiamo bisogno di recuperare la “Verità” nella sua dimensione teologica ed escatologica. Tommaso d’Aquino affermava che “la Verità è una“ e che tutte le verità parziali concorrono a costituire la verità totale. In questa prospettiva, il sapere umano, pur frammentato in molteplici discipline, può essere ricomposto in una visione unitaria: i diversi domini di conoscenza cooperano nel disvelare il senso più autentico e profondo della Storia, riconoscendo che ogni assioma scientifico, ogni legge naturale, ogni scoperta filosofica non è fine a se stessa, ma trova il suo compimento nella Verità ultima del “Logos”. Il tutto valorizzando e non annullando le differenze tra le varie scienze (ciascuna dotata di contenuti e metodi propri) promuovendo a tal fine un ampio processo dialogico tra di esse (che, tuttavia, abbisogna d’essere preservato dal rischio, sempre incombente, del relativismo), nonché evitando accuratamente di scadere nella dialettica della intransigenza. Il percorso verso l’unità e l’armonia dei saperi è, quindi, un cammino di riconciliazione con il “Logos”, un ritorno alla fonte comune di ogni verità nell’unica “Verità”. Nella sua essenza più profonda, il sapere umano è, infatti, un riflesso dell’intelligenza divina, una partecipazione alla razionalità del “Logos”. Per questa ragione la ricomposizione sostanziale e non formale dell’unità e dell’armonia delle scienze e dei saperi implica la ricomposizione sostanziale e non formale delle diverse teologie nell’unica vera teologia, nella quale il sapere immanente dovrà essere incardinato e fondato alla luce della “rivelazione”. Si tratta di un cammino necessario che urge d’essere percorso, nell’epoca del “relativismo iper-relativista”.
Il cristiano può e deve fare molto in questa prospettiva, riaffermando e ristabilendo (in parole ed opere) la centralità di Cristo “Logos incarnato del Dio Eterno nella Storia”. Anzi, riscoprendo se stesso, in quanto cristiano, come “Logos incarnato del Dio Eterno nella Storia”. In ogni ambito personale, professionale e sociale in cui esso è impegnato. Poiché, come ci ricorda Papa Francesco nella sua ultima enciclica: “Dilexit nos (Ci ha amati)”. Anche noi, dunque, siamo chiamati ad amare nello stesso modo in cui siamo stati amati. Facendo conoscere ad ogni uomo la propria eredità. Che è eredità eterna (e di eternità). Anche questa è vera innovazione armonica. Incamminiamoci.
Fonte: Francesco Cicione | FrancescoMacrìBlog.com