Lo scorso maggio è uscita 40 vite. Senza fermarmi mai (La nave di Teseo), autobiografia di Enrico Ruggeri, uno dei cantanti più poliedrici, longevi e controcorrente del nostro tempo. Lo abbiamo avvicinato per una conversazione a tutto campo su amicizia, arte, dittatura del pensiero unico, senso del sacro e speranza.
Ruggeri, sin dalle prime pagine del suo libro lei parla dei rapporti che l’hanno accompagnata fin qui. Cosa rappresenta l’amicizia nel suo mondo?
«Tutto, perché la musica è una disciplina che si fa con il sorriso sulle labbra, tra amici. Suoni insieme, viaggi insie- me, vai a dormire nello stesso albergo, mangi insieme. Accade quando vai in tournée, ma anche ogni volta come dico nel libro, l’ho vissuto per 40 volte che vai in studio per registrare. Credo che per fare buona musica e per il talento sia fondamentale un rapporto umano di grande amicizia».
Ha più volte affermato mai scelto comode scorciatoie, tenendo conto più delle sue intuizioni che di chi le proponeva situazioni tranquille, magari più in sintonia col mercato. Perché?
«Devo dire che mi è venuto naturale. Anche perché non è detto che uno che ti dice: “Facendo questo siamo in sintonia col mercato” poi ci riesca sempre, a volte puoi rischiare una brutta figura. Non sempre conviene, non è una cosa garantita».
In questo suo praticare sentieri impervi, cosa cerca?
«La messa a fuoco di un’idea, del mio modo di fare musica, di scrivere canzoni, quindi il mio modo di comunicare – qualcosa che avevo, e che ho, in mente».
Sin dai suoi esordi ha messo in scena temi ritenuti tabù. Questo l’ha resa anche impopolare, penso a brani come La donna vera, Certe donne o addirittura Trans e Senza Terra. Mi tolga una curiosità: cosa le permette di essere sempre in anticipo sui tempi?
«Oggi è sempre più difficile uscire dai binari del mainstream. La capacità di anticipare certe questioni dipende dal fatto che mi guardo attorno, percepisco certe pulsioni della società. Ad esempio, con i Decibel nel 1978 ho scritto un pezzo intitolato Superstar nel quale raccontavo di un fan compulsivo che uccide la sua rockstar preferita. Nel 1980, due anni dopo, Mark David Chapman uccide a New York John Lennon, il suo idolo. Avevo già individuato un rapporto troppo conflittuale che si stava creando tra i fan e certi cantanti che erano divenuti troppo importanti, che avevano cambiato tante vite, influenzando nel bene e nel male anche quelle di alcuni scriteriati».
Quindi l’arte può contenere un germe di profezia, o dire così è un azzardo?
«Andiamo anche più in alto: il grande artista è quello che anticipa i tempi. Basti pensare alla storia della pittura, del cinema, della letteratura».
Durante la pandemia l’aver manifestato pubblicamente una posizione critica verso il sistema, un «regime» per qualcuno, ha rappresentato una voce fuori dal coro. È pericoloso nel suo ambiente andare controcorrente, quanto le è costato in termini professionali?
«Molto, perché poi non ti chiamano più in televisione, a Sanremo… vieni isolato. Per cui o la butti sul drammatico o la affronti con un sorriso. Alla fine in questo mondo diventi sostituibile, e quello che facevi tu magari lo fanno fare a un altro e lo spettacolo può andare avanti».
La vita reale, e non quella che si affaccia dai profili social, porta con sé successi, vittorie, ferite, incomprensioni, sconfitte. Nel suo libro lei dichiara errori fatti e scelte sbagliate. Da dove nasce la libertà di mettersi così a nudo?
«Se scrivi un libro in cui racconti quello che fai, il percorso che hai compiuto e che ti ha portato dove sei ora, questo diventa inevitabile. Non puoi scrivere un libro solo per dire quanto sei stato bravonon avrebbe senso. Gli errori sono stati anche errori strategici, quindi anche letterariamente ha senso raccontarli. Intanto perché qualcuno che fa il tuo mestiere può dire: “Quella cosa non era una buona idea”, ma poi per autoironia, per amore della verità, e per spiegare perché certi dischi sono andati meglio di altri, perché certe annate sono state più felici e altre meno. Se fai un libro autobiografico, non puoi che farlo così, cercando di essere onesto fino in fondo. Anche perché non c’è niente di male a sbagliare, fa parte della strada. Come nello sci: qualche paletto lo si può sempre prendere»
Tra gli atteggiamenti scomodi che caratterizzano la sua produzione c’è la capacità di mettersi nei panni dell’assassino, di assumere cioè il punto di vista di chi ha torto – o quantomeno di chi non è dalla parte “giusta” della storia.«
«Questa è una delle cose più belle da raccontare».
Oggi invece sembra di essere invasi da una pletora di nuovi sacerdoti moralizzatori che recitano una liturgia già scritta altrove. Che peso ha tutto questo anche in chiave artistica?
«Raccontare di Ettore è molto più spettacolare che raccontare di Achille. In realtà quelli che sono dalla parte sbagliata della storia, o di una storia contingente, che va dagli eroi negativi che sono morti a quelli che hanno sbagliato nel rapporto con la propria donna e sono finiti da soli, perché ci sono milioni di modi di essere sconfitti nella vita, sono sicuramente, anche in chiave letteraria, i personaggi più interessanti da narrare».
La provoco fino in fondo: qualcuno scriverà mai una canzone sui russi?
«Sarebbe una bella canzone; prima o poi succederà. Ho fatto tante tournée in Russia, sono un popolo meraviglioso. Io mi sono nutrito della loro letteratura. Questo non vuol dire nulla rispetto alla politica, ma i russi sono un grande popolo».
Altro tema che lei affronta in modo inconsueto nel mondo della musica italiana è quello della morte. Perché nessuno vuole farci i conti? È solo questione di marketing o parlare del senso della morte costringe in realtà a parlare del senso della vita, e su questo non siamo molto attrezzati?
«Perché il tema non è accattivante e la gente non lo vuole sentire. La nostra è una società che rimuove quel pensiero, lo tiene in periferia. Quando al telegiornale danno la notizia che qualcuno è morto non usano mai questa parola, bensì: “Si è spento”, “ha cessato di vivere”, “ha perso la sua battaglia”; la parola ‘morte’ viene usata solo in senso figurato: “Un binario morto”, “quello ha fatto la mano morta”, “sono morto in quella situazione”. Di fronte alla morte, quella vera, si usano solo espressioni edulcorate. Invece la morte è un motore incredibile. Se fossimo eterni, chi avrebbe voglia di scrivere una canzone, di fare una bella intervista, di scrivere un bell’articolo? Sposteremmo tutto più in là. E poi il fatto che siamo di passaggio ci spinge a lasciare una traccia, a fare qualcosa di bello, sia nel lavoro che nei rapporti umani».
Ennio Flaiano diceva: «niente di più triste di un artista che dice “noi pittori” oppure “noi scrittori”; e sente la sua mediocrità protetta e confortata da tutte le altre mediocrità, che fanno numero, società, sindacato». Non trova che ci siano troppi soggetti in giro in cerca di appartenere a questo sindacato?
«Assolutamente, si».
Esistono ancora dei talenti – penso soprattutto ai giovani – e dei maestri?
«Mi auguro di sì, anche se oggi sembra sempre più difficile. lo che ho fatto più di 3.500 concerti, mi ricordo che ai primi duecento si sentiva male, c’erano problemi tecnici, veniva poco pubblico, tutte cose di cui in questo mestiere. per chi fa questo mestiere, c’è bisogno per crescere. Se invece passi da un talent show direttamente al Forum di Assago in due settimane, finisci per essere un pesce fuor d’acqua. C’è in gioco anche una questione di tempi e di maturazione degli artisti».
Oggi il politicamente corretto, che assume anche i tratti della cultura woke in tutte le sue declinazioni, esercita una pressione tale da far dire ad alcuni che siamo in presenza di una vera e propria dittatura, ultimo esempio indiscusso sono le Olimpiadi di Parigi. Come legge il contesto presente?
«Oggi le dittature non si fanno più con i carri armati, sono molto più subdole. Si prospetta un pericolo, la pandemia ne è stato chiaro un esempio, e poi si impone un modo collettivo per evitare questo pericolo. La dittatura adesso assume la forma di coloro che dicono: “È reato parlare male del mondo Lgbtq”, “è reato dire che hanno ragione i russi”, “è reato il negazionismo climatico”. Per carità, possono anche essere delle cose giuste, ma il fatto che qualcuno dica che affermare una determinata cosa sia reato, questa è una dittatura. Oggi nessuno arriverebbe a Palazzo Chigi con i carri armati o a invadere la Rai con i mitra, ma ci sono nuovi modi per nuove dittature».
Davanti a una pressione così forte, come si fa a rimanere liberi?
«Vivendo in maniera diversa, rischiando l’impopolarità. L’impopolarità è una mannaia che ti cade addosso velocemente. Tu dici una cosa e vieni aggredito da qualche centinaio di persone che ti gridano: “Pensa a cantare, ché sei vecchio e non capisci niente”. Bisogna vivere senza avere paura di questo».
In un contesto smarrito com’è il nostro, Dio sembra un capitolo chiuso. C’è ancora bisogno di Lui?
«Assolutamente si, è una risorsa straordinaria, anche se è chiaro che siamo in presenza di una desacralizzazione di tutto, anche della Chiesa, che invece deve richiamare all’idea del sacro».
Date le premesse e gli sviluppi, lei la speranza dove la trova?
«Nell’individuo e nelle minoranze. Laddove tutti dicono e ridicono la stessa cosa, io vado a cercare quei tre o quattro che non sono d’accordo, perché so di trovarci un pensiero non conformista, quindi già per questo interessante».
Il sottotitolo del suo libro è Senza fermarmi mai. Da domani a Enrico Rugegeri cosa succede?
«Ho fatto un concerto ieri, uno lo faccio oggi e un altro lo farò domani. Navigavo a vista già a vent’anni, figuriamoci oggi, che ne ho 67. Navigo a vista».
Fonte: Alessandro Vergni | IlTimone.org