A casa si torna, a scuola si va. La lingua, quando è madre, non mente. C’è casa infatti (anche a casa) dove e quando facciamo esperienza di appartenere alla vita senza dover dimostrare nulla (avere, fare, apparire). La vita è infatti un’odissea perché, come nel poema omerico, è un lungo ritorno a casa, dove chi ti ama ti riconosce mentre il mondo ti crede nessuno. A scuola invece si va, perché c’è scuola (anche a scuola) dove e quando scopriamo il modo che ciascuno ha di guardare e prendersi cura del mondo (campetto, oratorio, pianoforte, parco, bar… e tutte le altre scuole possibili). Casa non è «appartamento» (appartarsi) ma «appartenenza» (sentirsi voluti), scuola non è «edificio» (il muro dei Pink Floyd) ma «auspicio» (il futuro, la parola in latino indicava l’osservare il cielo per cogliere il volere divino nelle decisioni da prendere).
Insomma casa è dove sempre posso essere, mi sento voluto nella vita, quindi ci torno; scuola è dove sempre posso incontrare la vita, mi sento chiamato, quindi ci vado. Dove al crescere dell’appartenenza cresce la libertà, è casa. Dove al crescere dell’incontro cresce l’individuazione, è scuola. Tornare a casa, essere, andare a scuola, crescere, sono i due movimenti dell’esistenza, a ogni età. Dove torniamo o dove andiamo noi, oggi?
Ispirato dal filosofo Ivan Illich mi servo dell’immagine della lumaca che con la sua chiocciola «torna» e «va» al contempo. Crescendo secerne una sostanza calcarea con cui crea la conchiglia che fa da supporto agli organi e riparo dai predatori. Aggiunge una spira all’altra secondo la proporzione aurea (rapporto armonico presente in molti fenomeni naturali e imitato dall’uomo per esempio nelle misure di un tempio greco o della carta di credito), e si ferma quando un anello in più sarebbe sedici volte maggiore dell’ultimo, e la schiaccerebbe.
La lumaca «torna» e «va» senza spezzare l’armonia tra dimensioni e bisogni, ciò che invece a noi accade oggi con l’eccesso di strumenti (dai dispositivi alle istituzioni) che invece di aiutarci a vivere ci opprimono, non riusciamo a «tornare» e ad «andare». Perché infatti pur avendo «strumenti» come mai accaduto nella storia, aumentano disuguaglianze, emergenze educative, patologie psichiche e disagi sociali? Perché la «chiocciola» ci schiaccia.
Anche quella della casella (altra «casa») mail: doveva semplificare il lavoro e invece la temiamo come i nostri antenati le fiere, uno studio ha infatti scoperto «le apnee» da apertura di posta elettronica, le stesse di chi, nella preistoria, tratteneva il fiato per affrontare animali feroci. Se uno strumento diventa un nemico non è più «salvifico». Salvo (e salute) ha una radice antica che significa: integro, unito, tutt’uno. Uno strumento salva quando «integra» (unisce a sé e agli altri), al contrario «dis-integra» (separa da sé e dagli altri). Uno strumento salva quando estende/facilita l’azione personale senza rovinare la salute (ci rende più sani…) e le relazioni (…e salvi). Ciò vale per tutti i ritrovati culturali, dai dispositivi alle istituzioni. La scuola salva se mi aiuta a diventare me stesso, se è una comunità di ricerca di adulti e giovani, se mi rende soggetto di possibilità e non oggetto di aspettative. La politica salva se facilita l’azione personale e sociale, altrimenti è solo gestione del potere e controllo burocratico. Un telefono salva se mi unisce al mondo non peggiorando la mia salute; se mi rende più autonomo, non dipendente; se facilita il sapere e non mi sfrutta a mia insaputa. Dove prevale la disintegrazione non c’è salvezza ma repressione.
Questo oggi succede anche al corpo, non vissuto come «casa» (sono un corpo) ma come mezzo (ho un corpo) da rendere il più performante possibile (doping fisico e psichico) fino a bruciarsi (burn-out) o a crollare (depressione). Non si torna più a casa (dal corpo individuale a quello sociale), perché non si appartiene a niente e nessuno, come invece fa chi si lega ad altri per scalare senza sentirsi privato della libertà. Non si torna ma ci si intrattiene, cioè si è «trattenuti», ognuno da solo col suo zaino sedici e più volte grande del necessario. Allo stesso modo si smette di andare a scuola: un sistema basato su precariato e burocrazia mortifica la relazione tra docenti e studenti e non serve certo a trovare se stessi incontrando il mondo.
Come dice splendidamente il filosofo spagnolo Esquirol nel recente La scuola dell’anima: «C’è casa perché ci sono le intemperie. E le intemperie richiedono protezione. C’è scuola perché c’è il mondo. E il mondo richiede attenzione. Ci sono casa e scuola perché, nella protezione e nell’attenzione, ognuno può percorrere la sua strada e maturare, per dare frutti. Che genere di frutti? Più casa e più mondo».
Da ciò che per ciascuno è tornare a casa o andare a scuola dipende cioè quanto siamo felici (felice è chi dà frutti). Casa è per me incontrare il creato, come mi è successo qualche giorno fa camminando in un bosco in cui la luce umida del tardo pomeriggio trafiggeva l’intrico di abeti, pini e larici con lame luminose che, tagliando il denso pulviscolo verde, raggiungevano un sottobosco di cespugli, muschi e radici contratti dal sempre più silenzioso freddo autunnale. Uno di quei momenti in cui la bellezza mi contiene e il cuore è quindi «contento», dal latino «contenuto»: mi sento figlio. Il contrario del «discontento», cioè «non contenuto» (senza legami), espulso, separato, orfano, che provo in macchina nel traffico.
Andare a scuola è quando leggo pagine che lavano cuore e mente dall’abitudine, dal dato per scontato, dal pressapoco. Di recente mi è capitato con il De rerum natura (La natura delle cose) di Lucrezio magistralmente tradotto dal poeta Milo De Angelis. Un’immagine mi ha aperto gli occhi (dormiamo anche da svegli?): il poeta latino Ennio immagina di ricevere la sua vocazione poetica nell’aldilà, da Omero. Il poeta greco rivela a quello latino la natura di tutte le cose, ma lo fa in lacrime.
È l’essenza della scuola: trovare la nostra vocazione grazie a un maestro, che ci indica sia che la vita finisce (è limitata) sia che è un miracolo inesauribile (ci chiama), con lacrime rispettivamente di dolore e di gioia. Una pagina così mi fa incontrare il mondo e trovare me stesso, perché è solo la verità che rende liberi.
Insomma casa e scuola ci accadono quando, una volta scoperto dove si trovano per noi, vivere diventa moltiplicare ritorni e andate, per fare più casa e più mondo. E se troviamo ostacoli o distrazioni, da lì deve cominciare l’azione, per rimuoverli. Se abbiamo costruito una spira di troppo, non serve dividersi tra apocalittici (il cellulare è morte!) e entusiasti (il cellulare è vita!), ma discernere caso per caso, eliminando, in ogni strumento (dispositivo o istituzione), il troppo, e custodendo il necessario. Per tornare a casa e andare a scuola non servono passi da gigante, ci vogliono passi da lumaca, quando andare e tornare sono un unico movimento, verso la gioia.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it