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I poeti e noi. Il profilo dell’educatore ideale? Virgilio nella Divina Commedia

Le cinque caratteristiche decisive per chi educa: il senso di missione, il lavoro di squadra, l’empatia verso gli allievi, una morale senza moralismo, la capacità di lasciare andare

Duca, segnore, maestro: sono queste le tre parole con cui Dante definisce Virgilio, sua guida, alla fine del II canto dell’Inferno. Virgilio è duca, cioè colui che conduce; ma è anche signore e maestro: ha autorità su Dante e può insegnargli molto. I critici concordano sul fatto che Virgilio sia il simbolo della ragione, ma la sua figura va molto oltre. Virgilio è un personaggio estremamente autorevole, ma anche di straordinaria umanità. Per questo si può considerare il modello di ogni educatore, un modello estremamente vicino a noi. Cosa può dunque insegnare Virgilio a chi è chiamato a educare?

In primo luogo, un educatore è qualcuno che incarna un ideale, o almeno ci prova. Un educatore non è uno che si accontenta, che si guarda l’ombelico: è uno che è davvero convinto di poter cambiare il mondo a partire dal suo piccolo, cioè dalle ragazze e dai ragazzi con i quali gli è donato di camminare. Uno che tiene alto lo sguardo, si impegna nel particolare senza però dimenticare mai il quadro generale. Un educatore ha una meta, si sente chiamato. Virgilio lo dice subito a Dante nel II canto dell’Inferno:

Io era tra color che son sospesi,

e donna mi chiamò beata e bella,

tal che di comandare io la richiesi.

Virgilio è inviato dal cielo per una missione. Missione è una parola bellissima e fortissima che, come tutte le parole potenti, suscita dibattito. Si è più volte discusso, ad esempio, se l’insegnamento sia un lavoro o una missione. C’è chi afferma che sia un lavoro, che parlare di missione sia fuorviante, da un lato perché si carica di una idealità eccessiva quello che ha il diritto di restare un mestiere, dall’altro perché, con la storia della missione, si vorrebbero evitare altre scomode discussioni legate alla qualità della vita e al livello salariale dei docenti. Non entro qui in un dibattito complesso, che meriterebbe ben altro spazio; dico che però sarebbe proprio bello se chiunque, non solo gli insegnanti e gli educatori, vivessero il loro lavoro come una missione: l’operatore ecologico, il dirigente pubblico, il banchiere, l’imprenditore, il muratore, il medico, e chi più ne ha, più ne metta. Tutti, col nostro lavoro, siamo chiamati alla missione di donarci agli altri e quindi a salvare un pezzo di mondo. Come Virgilio, che con la sua missione salva Dante. E Dante racconta di lui; e i versi di Dante arrivano fino a noi e salvano un po’ anche noi.

In secondo logo, un educatore è qualcuno che gioca in squadra. Non c’è nulla di più dannoso dell’invidia in una equipe educativa. Non c’è niente di più ferale della gelosia in un consiglio di classe. Invidia e gelosia portano a sviluppare ego ipertrofici, a vedere le classi come proprio possesso, gli allievi come potenziali seguaci, i colleghi come avversari su cui primeggiare. Basta una critica scorretta a un collega di fronte a una classe di adolescenti per gettare il seme della zizzania, per diffondere sfiducia, per distruggere ore e ore di educazione civica in cui si è parlato di rispetto reciproco.

Siamo tutti al servizio di chi ci è affidato. Siamo tutti utili, ma nessuno è indispensabile. Siamo una squadra: ognuno deve giocare nel suo ruolo, con umiltà. Virgilio lo sa benissimo e lo dice subito a Dante nel primo canto dell’Inferno, parlando delle “beate genti”, le anime del Paradiso, che lui non potrà mostrargli:

A le quai poi se tu vorrai salire,

anima fia a ciò più di me degna:

con lei ti lascerò nel mio partire.

Sarà un’altra anima a condurti nel regno dei beati. Sarà Beatrice. Lei è più degna di me. Io ho il mio compito, lei il suo.

Non c’è ombra di risentimento in queste nobilissime parole. In terzo luogo, l’educatore è capace di concreti gesti di cura. Non è un istruttore freddo; è uno che sente l’altro nel profondo, è una persona empatica. È felice con il suo allievo, soffre con lui nelle difficoltà. Non si limita a spiegare cosa bisogna fare, ma si mette in gioco in prima persona; si compromette, si fa carico del prossimo.

Virgilio a volte rimprovera Dante aspramente, però gli vuole bene e non lo molla mai nella difficoltà. All’ingresso dell’Inferno Dante è terrorizzato. Siamo nel canto III, è il momento di fare il primo passo nel buio della dannazione, e Virgilio fa un gesto di tenerezza infinita: prende la mano a Dante, gli mostra un volto lieto, probabilmente gli sorride:

E poi che la sua mano a la mia puose

con lieto volto, ond’io mi confortai,

mi mise dentro a le segrete cose.

Da prof ho sperimentato tante volte che tra un recupero e un mancato recupero, tra un successo scolastico e un fallimento c’è una linea molto sottile. Se trovi un insegnante che ti stronca, di cui percepisci la disistima, che di distrugge a parole, parti già penalizzato. Se trovi un insegnante che ti incoraggia, che crede in te, che ti supporta pur senza regalarti niente, magari anche tu finisci per credere che ce la puoi fare, e magari ce la fai davvero. In quarto luogo, l’educatore non è un moralista, ma ha una forte etica, che tenta di incarnare in una coerente condotta morale. L’educatore non può essere uno spietato censore: deve porsi in ascolto, deve accogliere le fragilità, deve accettare che il cammino di crescita comporta sia passi avanti che cadute. Crescere è un cammino imperfetto, ma graduale e progressivo, fatto di condizionamenti difficili da sconfiggere, ma anche di liberanti salti di qualità. Il moralista mette al primo posto l’ideale e lo usa come un letto di Procuste per distruggere le persone. Un educatore, invece, mette la persona al primo posto, accoglie la sua storia, ha uno sguardo di misericordia.

Con il vizio che distrugge, però, l’educatore è inflessibile. Nell’VIII canto dell’Inferno, nella palude Stigia, Dante incontra l’iracondo fiorentino Filippo Argenti. Costui si chiamava in realtà Filippo Adimari, ma era soprannominato “Argenti” perché ostentava a tal punto la sua ricchezza da ferrare con l’argento gli zoccoli del suo cavallo. Avversario politico di Dante, è l’incarnazione della spietata arroganza della ricchezza che, secondo il poeta, distrugge la società. Tema attualissimo, peraltro: gli Argenti di oggi sono quelli che misurano le persone sulla base del conto corrente, della fama, del numero di like; coloro che ritengono vi siano esseri umani di serie A e di serie B e che si credono tra i dominatori del mondo.

Dante, contro Argenti, si mostra spietato: lo maledice, infierisce contro di lui a parole. Di fronte a questo atteggiamento, Virgilio abbraccia Dante, lo bacia, lo loda con espressioni quasi religiose, dice che la stessa madre di Dante è benedetta per essere rimasta incinta di lui:

Lo collo poi con le braccia mi cinse;

basciommi ’l volto e disse: ‘Alma sdegnosa,

benedetta colei che ’n te s’incinse!

La reazione sembra esagerata, ma Argenti è qui il simbolo di tutti quegli atteggiamenti che più profondamente dividono la società, togliendo dignità agli esseri umani. Atteggiamenti dai quali l’educatore deve mettere in guardia duramente: se l’io prevale sul noi, tutte le relazioni risultano minate. Infine, l’educatore è qualcuno che sa che il suo compito ha un inizio e una fine. Il grande educatore non rende gli altri dipendenti da sé, ma desidera la loro autonomia. Non pretende di tenere i suoi allievi sempre con sé: il suo obiettivo è che vadano avanti per loro conto. L’educatore ti vuole così bene da sapere che il suo successo è completo quando tu sai camminare da solo. L’educatore vince quando tu sai fare a meno di lui. È ciò che avviene alla fine dell’ascesa del Purgatorio, nel XXVII canto. Sulla soglia del giardino dell’Eden, Virgilio saluta per sempre Dante con parole di immensa grandezza, le sue ultime nella Commedia:

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch’io te sovra te corono e mitrio.

Sei tu il re di te stesso, hai tu in mano il timone della tua vita. Ora puoi andare, tocca a te: non ti servono più le mie parole e le mie indicazioni.

Ricordo una strepitosa collega, che regalò questi versi a una quinta superiore a cui era legatissima, proprio l’ultimo giorno di scuola insieme. Ci furono pianti e abbracci. Certamente c’era la sensazione di un tempo passato e irreversibile. C’era il dolore per la fine di una storia insieme. Ma a prevalere era la gratitudine: ragazze e ragazzi capivano benissimo che quella prof non li stava abbandonando. Col suo passo indietro, stava facendo loro il dono più grande: la libertà di essere ciò che desideravano.

Anche Dante lo capisce e, pur nel dolore, quando si rende conto che Virgilio se n’è andato, lo chiama “dolcissimo patre”. Perché un padre resta per sempre, anche quando non c’è più.

Fonte: Marco Erba |  Avvenire.it

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