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Disabilità: in “Mon inséparable” l’amore vince sul pregiudizio

La regista francese Anne-Sophie Bailly è in concorso al Tertio Millennio Film Fest di Roma con “Mon inséparable”. Due giovani portatori di handicap annunciano alle famiglie di aspettare un bambino

L’amore supera tutte le barriere, anche quelle dell’handicap. Mona è una madre giovane, ha cresciuto da sola Joël, il figlio affetto da una disabilità mentale che, a trent’anni, si è innamorato di una ragazza come lui, Océane, al punto che i due annunciano di aspettare un bambino. La preoccupazione della madre esplode, il legame simbiotico con il figlio vacilla, il conflitto diventa lacerante. Era stato apprezzato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia ed è stato applaudito l’altra sera in concorso al Tertio Millennio Film Fest di Roma, organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, Mon inséparable, coinvolgente pellicola della regista francese Anne-Sophie Bailly.

Trentaquattro anni, la Bailly si è fatta notare per i suoi film caratterizzati dai temi della cura, della maternità, della filiazione, della trasmissione. Temi che ricorrono anche in Mon inséparable, che in Francia uscirà il 25 dicembre e poi anche in Italia distribuito da I Wonder Pictures. Una sorta di favola moderna e dolceamara, dove i due protagonisti, interpretati da attori affetti da disabilità (gli straordinari Charles Peccia Galletto e Julie Froger), compiono una scelta a favore della vita con la semplicità e la verità dei puri di cuore. Mettendo in crisi legami consolidati e sofferti, come quelli di una madre (l’energica Laure Calamy) che ha sacrificato tutta la sua vita per amore del figlio, e che ora si trova sbalestrata dalla sua scelta di indipendenza tanto da cercare in modo confuso la propria. Un film però pieno di speranza, come ci racconta la regista incontrata alla proiezione al Cinema delle Provincie di Roma.

«Al centro ci sono tre personaggi in cerca di libertà, mentre tutto li limita e li lega – ci racconta Anne-Sophie Bailly – . Questa cura della madre per il figlio è tanto un dono quanto una maledizione, che li lega in una complessa co-dipendenza. Joël e Océane sono diversi. E tuttavia, come tutti, si desiderano e si amano, al punto di pensare di avere un figlio. Chi siamo noi per giudicare la loro capacità di prendersi cura di qualcun altro? Lo sguardo di Mona, tenero e preoccupato, riflette le mie domande: quali diritti – e doveri – abbiamo gli uni sugli altri? Sui corpi e sulle vite degli altri?».

Il viaggio della regista affonda le radici in una esperienza personale. «Mia madre è infermiera ed ha lavorato in una casa di riposo nella quale da adolescente avevo lavorato qualche settimana – ricorda -. Dovevo accompagnare un gruppo di persone anziane in viaggio. In questo gruppo c’era una madre ottantenne accompagnata dalla figlia sessantenne, Jolanda, che aveva un piccolo ritardo mentale. Avevano vissuto sempre insieme e, quando si è dovuti ricorrere ad una assistenza quotidiana per la madre, ci si è resi conto che era impossibile separarle». La storia ha appassionato Anne-Sophie «perché era esattamente come tutte le relazioni genitori figli, solo che con la disabilità tutto è “di più”. C’è più risentimento, più protezione, più amore».

L’intento della Bailly, quindi, non è incentrare il film sull’handicap, per quanto ne sia un tema importante, ma sulla famiglia, «su come ci si può sbagliare gli uni sugli altri, come ci si stacca, come si resta invariabilmente legati. L’handicap rende questo con un potenziale drammatico ancora più forte e permette di porre domande sulla società». E poi c’è il tema delicato della maternità e dell’affettività tra i portatori di handicap. «Il mio lavoro è attraversato sin dall’inizio dalla maternità, ho fatto un documentario su quello. E non volevo centrare questo film sul tema della contraccezione, che è evocata sullo sfondo» spiega la regista. Nel film la scelta della giovane Océane appare pienamente consapevole, come certifica la ginecologa che la intervista mentre le famiglie dei due ragazzi sono sotto choc. «Per me il loro desiderio di avere un bambino doveva essere irrefutabile, anche perché durante le mie ricerche ho lavorato nel genere di istituzioni di lavoro protetto nelle quali vediamo Joelle e Océane nel film e mi sono fatta un’idea» aggiunge la regista. Che ha scovato due attori davvero azzeccati. «Charles è in situazione di handicap, ma ha fatto la scuola di attore e il suo desiderio è di continuare a recitare – spiega -. Ed è a un livello professionale, dato che l’ho trovato attraverso il suo agente che ha creato una agenzia che ha come missione di dare visibilità agli attori “diversi”. Julie l’ho trovata invece in un laboratorio di improvvisazione in una struttura protetta. All’inizio era quasi impossibile farla parlare, ma lavorando con lei mi sono resa conto che è una attrice straordinaria».

Il film è anche un esempio di scambio reciproco, perché «loro si sono potuti esprimere al meglio perché sul set abbiamo avuto l’aiuto di una agenzia che si occupa dell’integrazione lavorativa dei portatori di handicap. Avevamo una figura che ha coordinato la regia con questi attori occupandosi dei loro bisogni specifici. Abbiamo effettuato degli adattamenti che hanno permesso che Charles e Julie diventassero dei colleghi come noi, e ha funzionato». Mon inséparable dà voce anche alle difficoltà delle famiglie: «La protagonista è una madre coraggio, ma passa il film a distruggere quello che ha fatto come madre coraggio. Alla fine ci sarà la doppia emancipazione, sua e del figlio. Non si sa se tutto andrà bene, ma lo si spera».

Fonte: Angela Calvini | Avvenire.it

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