«Una lettura profonda della realtà giovanile che, pur non nascondendo i problemi, ha uno sguardo di speranza». È la prima reazione di Marco Erba, classe 1981, insegnante e scrittore di romanzi per ragazzi, al volantino di CL “Il male e l’amore che salva”. Una speranza che emerge anche nel suo ultimo libro dal titolo forte Il male che hai dentro. «Perché il male c’è, i protagonisti ci sono immersi, ma nelle vicende che attraversano scoprono che dentro ognuno c’è una scintilla di bellezza insopprimibile e il mondo ha bisogno di queste scintille. È l’esperienza quotidiana che faccio con i miei alunni e che rende affascinante il mio lavoro di insegnante. E anche di scrittore, perché i miei libri attingono da questo mondo, da quello che vedo e mi raccontano».
Ma i ragazzi desiderano parlare di sé?
Hanno una gran voglia di raccontare e condividere le loro esperienze. Sono sempre alla ricerca di adulti che siano in grado innanzitutto di ascoltare prima che di giudicare. Che non è sinonimo di persone “neutre”, non schierate: il primo desiderio dei ragazzi è però sentirsi liberi di parlare. Come professore di Italiano ho, per così dire, una chance in più: la lettura e la spiegazione dei grandi autori della letteratura. Catullo parla dell’illusione amorosa; Dante della caduta e della risalita. I ragazzi si ritrovano nelle loro parole. Potrei fare mille esempi.
Uno?
Un’alunna trasgressiva, provocatoria, che rischiava di perdersi, anche se era molto intelligente. Dopo la lettura dell’Eneide, mi ha scritto che lei conosceva davvero Enea perché nell’eroe troiano rivedeva sua mamma, che l’aveva portata via dal padre alcolista, e grazie a lei aveva potuto avere un futuro diverso. Aveva “bisogno” di Enea per tirare fuori il suo dolore e anche la sua bellezza. Dietro a provocazione e trasgressione c’è sempre un bisogno di essere ascoltati.
Prima ancora che regole e paletti, c’è bisogno di «qualcuno che indichi una strada e la condivida con loro», come si legge nel volantino.
La regola, il divieto, l’intervento forte sono necessari in situazioni di sopruso del debole, come tutela di chi è più fragile; penso ad esempio agli atti di bullismo. Ma non basta. Rispondere al comportamento trasgressivo solo con la sanzione vuol dire essere uno specchio negativo per il ragazzo, cioè dirgli: “Tu sei sbagliato, non vai bene”. Come reagirà? Nella sua fragilità e angoscia persevererà nel personaggio che gli stai rimandando.
C’è un’alternativa?
Dare fiducia, questo per me è il grande atto educativo rivoluzionario. Dire a un ragazzo: «Tutti ti ripetono che hai sbagliato, ma io mi fido di te, anche se non lo meriti», questo cambia il cuore. L’ho provato sulla mia pelle, quando vivendo momenti di trasgressione e lontananza da un comportamento corretto, ho incontrato persone che si sono fidate dicendomi: «Tu vali». E l’ultimo a crederci ero proprio io. Bisogna stare attenti anche a non cadere nel tranello delle provocazioni dei ragazzi.
In che senso?
Viviamo la provocazione il più delle volte come un attacco al nostro io: va a colpire un nervo scoperto e di conseguenza si reagisce duramente. Ma gli adolescenti spesso provocano per lanciare un messaggio. Faccio un esempio. In un laboratorio di scrittura creativa, avevo dato come tema: «Chi è un eroe per te?». Un ragazzo ha scritto queste poche parole: «Io non ho bisogno di eroi, perché io sono l’eroe di me stesso». Al momento mi sono irritato, ma dopo è sopraggiunta una gran tristezza pensando a che sconfinata solitudine e fragilità c’è in questa frase. Ecco il messaggio che quel ragazzo stava inviando.
Ascolto e fiducia, sembra di capire.
E bisogna correre dei rischi. Oggi vedo genitori iperprotettivi e sindacalisti dei propri figli. C’è una figura sportiva che mi piace particolarmente e che rende l’idea. Nel rapporto con gli adolescenti non dobbiamo essere come l’arbitro che sanziona, che è distaccato, ma non dobbiamo neanche cadere nell’errore opposto: voler essere compagni di squadra. La figura adeguata è quella dell’allenatore: fa il tifo, non si sostituisce agli atleti, ma segue i ragazzi a bordo campo; alza l’asticella e lascia la libertà di sbagliare.
Quello che fa Mike, allenatore di ciclismo, nel tuo libro.
Sì: Mike prima di tutto ascolta, non pensa di avere le soluzioni in tasca, cosa che capitava a me nei primi anni di insegnamento. Dopo ho compreso che ascoltare in modo empatico è la prima cosa da fare. Dare il proprio tempo con passione per donare qualcosa di bello, senza la pretesa di salvare la vita di nessuno, è fondamentale: per me, credente, è la Provvidenza che agisce, noi possiamo essere solo strumenti attraverso cui l’amore di Dio può incontrare i nostri ragazzi. Possiamo essere seminatori come la parabola evangelica. I frutti poi si vedono. Mi vengono in mente alcuni miei ex alunni che mi sembravano persi e li ho ritrovati uomini e donne contenti del loro percorso di vita. Uno in particolare, diventato pasticcere, che mi ha detto: «Do tutto me stesso perché le persone gustino i miei dolci nei momenti felici della loro esistenza». C’è un altro aspetto del volantino che mi ha colpito.
Quale?
Il desiderio di mettersi in gioco, di non fermarsi al male. I fatti di cronaca riportano solo situazioni drammatiche, ma c’è una bellezza sommersa tra gli adolescenti: i ragazzi che fanno volontariato, l’esperienza scout, in ambito sportivo i giovani allenatori con gli atleti più piccoli. Cicerone scriveva che i suoi tempi erano i peggiori della storia, Sallustio sottolineava che il mondo era corrotto e senza via d’uscita. Eppure…. Siamo ancora qui a parlare del futuro. C’è bisogno di uno sguardo di fiducia, di tenere aperta la domanda: cosa si può fare? È lo sguardo di fede che un cristiano deve avere. Io non amo i cristiani apocalittici e fustigatori dei costumi. Mi piace un cristianesimo che cammina con le persone. Ed è l’esperienza che io ho fatto nell’incontro con i Salesiani, a cui devo la mia formazione. Don Bosco ripeteva che la santità consiste nello stare molto allegri. La testimonianza più grande che possiamo dare è essere felici e avere una qualità di vita elevata e quindi contagiosa. Come educatori siamo chiamati a credere nella scintilla di bellezza che c’è nell’altro, anche quando sembra non vedersi.