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Sbussolamento e frammentarietà del sistema universitario

Forse è vero che l’Università è l’istituzione più antica e radicata dell’Occidente, ovvero di questa parte di mondo caratterizzata da una radice umanistica. Ma è sbussolata quanto meno come il suo territorio geografico e culturale di primo sviluppo. Tanto che una delle più accreditate classifiche proviene da Shanghai. Laddove si formavano mandarini e non laureati.

D’altro canto, l’Università è un’istituzione per sua stessa natura globale. Per cui constatare lo sbussolamento non può significare laudatio temporis acti, perché questi tempi dal Sessantotto, non a caso originato in Cina dalla “grande rivoluzione culturale”, dove il secondo aggettivo pure deve avere un senso, non esistono più. E comunque non avrebbero più senso. Per cui in Italia in particolare, ma in tutto il mondo appunto globale, l’Università è bricolage di frammenti intorno ai titoli di studio, abbiano essi o meno valore legale.

Pertanto, non possiamo non ringraziare e concordare con Lorenzo Ornaghi, che ci offre un inventario e un campionario di questo sbussolamento e contemporaneamente di questo assemblaggio di frammenti.

Nel nostro Paese e nel nostro caso specifico data proprio dal Sessantotto esteso questo modo di procedere. Si tratta di frammenti generati dalle crepe prodottesi nella vecchia struttura nel momento in cui si espandeva, cui si aggiungono, per l’appunto, i successivi frammentari interventi susseguitisi nelle diverse stagioni e da parte dei diversi governi che si sono succeduti dopo lo strangolamento in culla della riforma universitaria Gui, giusto alla vigilia del periodizzante Sessantotto. Non che fosse niente di che quel testo, affossato dalla convergente azione dell’opposizione comunista, e dei cosiddetti baroni, ma rappresentava un tentativo di ristrutturazione generale, stritolato appunto a tenaglia.

Dunque da allora bricolage di frammenti, mentre cambiano i parametri di riferimento, attraverso quello che è stato definito il “tornante neo-liberale”, che a sua volta riposiziona l’università nel cosiddetto “mercato”. Ma anche riposiziona il sistema di regolazione. Non si è mai riusciti, nell’ultimo ventennio, neppure a redigere un Testo Unico di una normativa lussureggiante, di rango peraltro sempre più basso, a livello di decreto ministeriale, secondo la politica Bassanini attuata dai governi della legislatura 2001-2005. Questo bricolage di frammenti non è più tenuto insieme dalla burocrazia ministeriale, ridotta al minimo nei numeri e nell’operatività, dunque non dal diritto amministrativo, ma dall’ingegneria gestionale, ovvero dal sistema di controllo della qualità. Che ha generato e continua a proliferare, insieme al minimo necessario controllo, una ancora più ipertrofica produzione burocratica. Con limitata capacità decisionale, rispetto alla quale il diritto amministrativo classico, nella forma della giustizia amministrativa interviene solo come solutore in ultima istanza.

Eppur si muove, nel senso che tutto sembra si possa aggiustare ai margini, in modo incrementale, magari appunto con l’aiutino della giustizia amministrativa, che interviene, a torto a o a ragione, dove il sistema entra in affanno.

Così sulla gestione delle carriere e sulla questione dell’accreditamento, ovvero il gioco tra il sistema delle università telematiche e quello della università che si cominciano, ahimè, ad aggettivare come tradizionali. Un sistema, questo telematico, necessario, ma nato male, sulla spinta di interessi i più diversi, così da determinare un evento spartiacque, ovvero il primo esempio, nel 2021, di università come società per azioni, ovvero a scopo di lucro, sulla base del parere del Consiglio di Stato del 2019 che ha affermato «l’indiscutibile diritto delle università private di assumere la forma societaria». Strada immediatamente intrapresa dalle università telematiche.

Il sistema insomma, nonostante i regolatori di cui si è detto, e l’assenza di una cornice – una volta esauriti ed abbandonati i tentativi di determinare un Testo Unico – è condannato ad auto-regolarsi. Autoregolazione, quindi, con una frizione continua, una incertezza strutturale, una contrattazione incessante. Dato che i soggetti del sistema universitario sono molto diversi tra loro: le università e le università telematiche, le università statali e quelle non statali, le università e le scuole a fini speciali, e poi le differenze di taglia.

Nate a partire dall’inizio del XX secolo le Università non statali si sono moltiplicate con l’espansione le sistema universitario in particolare sul finire del secolo ventesimo, quando sono sorte tra le altre diverse proposte nell’ambito medico. Il grado di integrazione con il sistema statale è tradizionalmente strutturato, anche se un duplice indirizzo della giurisprudenza, della giustizia amministrativa e di quella ordinaria relativamente allo status delle università non statali rende più complessi alcuni elementi di gestione. Nessuna delle università non statali ha assunto forma di società di capitali. Assai più accentuato il cleavage tra le università (impropriamente aggettivate come tradizionali) e telematiche.

Gestione delle differenze, dunque, e gestione del sistema, che, pur in presenza di soggetti molto variegati non può che essere unico, rappresentano le due priorità per il caso (non solo) italiano. Con l’avvertenza che non può essere escluso un passaggio di “razionalizzazione” del numero (eccessivo) dei soggetti medesimi.

Così da tentare di rispondere comunque ad alcune delle domande strutturali che periodicamente e soprattutto nei momenti di passaggio si pongono riguardo all’università. A partire da quella se i laureati in Italia siano troppi o troppo pochi, in ragione dell’occupabilità e comunque del tono complessivo del sistema paese.

Quousque tandem?, si sarebbe detto nella prima lingua internazionale del sistema universitario. Il termine di verifica è il 2030, pare, quando verranno al pettine, causa clash demografico, i nodi della sostenibilità del sistema. In un crocicchio che esprime una triplice sfida, anche di senso: innanzi tutto il numero dei diplomati che affluiscono in università; in secondo luogo lo sviluppo del tema della formazione permanente e continua e, infine, l’integrazione e il flusso degli studenti internazionali.

Fonte: Francesco Bonini* | Lisander.com

*Università LUMSA, Roma

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