Lorenzo Ornaghi, lo dico per i pochi lettori che dovessero ignorarlo, ha trascorso tutta la sua vita di studioso e docente alla Università Cattolica di Milano, di cui è stato anche rettore dal 2002 al 2012. Devono quindi essere lette con grande attenzione le sue considerazioni sullo stato dell’accademia in Italia, giacché si contano sulle dita di una mano le persone che in questo Paese hanno una paragonabile contezza della situazione. Tuttavia, il suo contributo mi pare estremamente moderato, nel senso che si ricava una sensazione più che altro di stanchezza del sistema. Ornaghi lascia intendere che vi è essenzialmente una crisi generale del sistema universitario nel mondo, la quale si declina – come tutto del resto – in modo peculiare nelle aree italiche. Manca del tutto la sensazione della drammaticità assoluta, hic et nunc, della crisi che sta attraversando l’istruzione superiore in Italia. Ornaghi discute degli scostamenti contemporanei dall’ideal-tipo di quella che è stata una creatura europea del Medio Evo maturo (e ovviamente sa benissimo che lo Stato moderno aveva già ridisegnato interamente questa istituzione), ma a me pare che ciò che non si colga è la cifra drammaticamente disastrosa dello stato delle università in Italia.
Le università sorgevano “dal basso”, quali associazioni di studenti e professori che seguivano il modello delle corporazioni di arti e mestieri, lontane dai castelli e dalle abbazie del potere. Sebbene la nascita di ogni ateneo si faccia risalire a un documento papale o imperiale, una “bolla” di riorganizzazione di uno studium, la vita universitaria è stata per secoli piuttosto libera.
Il tipo ideale di università, Ornaghi lo accenna, era già stato totalmente sovvertito dal potere sovrano. Se nel secolo dei Lumi ben poche erano le vestigia dell’universitas scholarium, che si limitavano a qualche sopravvivenza formale, fin dalla prima età moderna il potere politico si era occupato delle università e uno dei risultati più evidenti è la nuova condizione dello studente, che da protagonista assoluto diventa un semplice “utente di un pubblico servizio”. In breve, il trionfo dello Stato sovrano ha reso il professore un pubblico funzionario e lo studente un consumatore di “scienza di Stato”. Nell’Italia unificata si impose subito una visione stato-centrica, al punto che paradigmatica risulta l’affermazione di Francesco De Sanctis, secondo il quale la missione dello Stato «è di essere il capo, la guida, l’indirizzo dell’educazione e dell’intelligenza del Paese» (1874).
Quindi non è facile discutere di scostamenti recenti da un tipo ideale di accademia che già l’affermarsi dello Stato sovrano aveva mandato in frantumi. Ciò che indubbiamente esiste è un’assoluta continuità dell’esperienza didattica occidentale, che da Platone a oggi ha sempre avuto lo stesso canovaccio: un docente che parla e svariati discenti che prendono appunti e nella migliore delle ipotesi pongono qualche quesito. Per due millenni e mezzo le conoscenze sono state tramandate in questo modo, dalle elementari all’ultimo seminario di dottorato. Prima della fondazione delle università il tutto accadeva nei monasteri e nei conventi, ma la solfa era sempre la stessa: lezione in aula, manuale a casa, parole del docente che dovrebbero imprimersi nella mente come e meglio delle letture, eventuali discussioni con gli altri discenti su ciò che si sta apprendendo.
Nel frattempo cambiava tutto intorno a noi, con un’accelerazione mai vista nella storia umana, ma non questo: lezione, lettura, apprendimento. Nessun docente né studente fino a poco tempo fa riteneva tutto sommato frusto ancorché vetusto il metodo didattico giacché non esisteva null’altro, né era immaginabile qualcosa di diverso.
E vengo al punto centrale della mia replica. Ornaghi accenna alle università telematiche – le uniche che davvero stanno scardinando sia il tipo ideale medievale, sia un modello immarcescibile di didattica – mostrando un apprezzamento del fenomeno piuttosto caricaturale. Le università telematiche italiane stanno riscuotendo un grande successo, il che inevitabilmente ha creato una serie di contraccolpi di matrice neoluddista, antimoderna contro le telematiche ormai da molto tempo. I cenni di Ornaghi sono certamente pacati, come è suo costume, ma almeno in parte ricalcano pregiudizi diffusi e duri a morire.
In primo luogo, Ornaghi afferma che nelle telematiche la didattica è del tutto svincolata dall’attività di ricerca scientifica. Vi è da chiedersi se mai, e quando, nelle università presenziali i docenti discutono in aula i risultati delle loro ricerche. Spero davvero per gli studenti che ciò non accada, giacché l’attenzione del 99% degli studenti sarebbe perduta. Le esortazioni continue dei colleghi che organizzano la didattica (chi scrive ha passato 28 anni in un’università pubblica e in presenza), ma questo è impossibile che l’ex rettore non lo sappia, sono proprio quelle di essere il più possibile comprensibili: nulla di esoterico, molto di essoterico.
Non solo, le lezioni che un tempo dovevamo sostenere di fronte a colleghi più maturi scientificamente per mostrarci degni di un posto di professore di seconda fascia, dovevano essere necessariamente preparate per un pubblico di studenti appena uscito dai licei italiani. Lo scoglio della lezione si considerava superato se, e solo se, era presentata in maniera semplice e comprensibile. Quindi non si poteva tassativamente richiamare né letteratura specialistica, né riflessioni troppo complesse. In breve, la didattica è inevitabilmente in qualunque università sganciata dalla ricerca.
Ornaghi collega poi lo sviluppo delle università telematiche alla crisi del settore universitario tradizionale. È vero il contrario. Solo la crescita dell’istruzione superiore online è riuscita a mascherare parzialmente i disastrosi dati sulle università in Italia. Il numero di iscritti alle università tradizionali è stato, infatti, in calo ininterrotto dal 2004, anno in cui le telematiche non esistevano, fino al 2015, anno in cui le università telematiche, non incidevano ancora in maniera significativa sul totale studenti (3.8% nel 2015-2016). Dal 2015 si può osservare una crescita complessiva delle immatricolazioni sia nelle università in presenza, sia in quelle telematiche.
L’ascesa delle telematiche è anche e soprattutto dovuta alla penetrazione della Rete, cosa della quale solo la parte più “antimodernista” del corpo accademico italiano potrebbe lamentarsi. Circa un quinto della popolazione di lingua italiana dieci anni fa avrebbe avuto la possibilità di seguire lezioni, sostenere esami e in generale di collegarsi a piattaforme “pesanti” come quelle delle telematiche. Oggi l’accesso a internet “veloce” è aumentato enormemente ed è ormai al 97% (Dati OCSE) per quanto concerne il settore “mobile”, grazie all’enorme sforzo per la digitalizzazione del paese. L’accesso alla didattica digitale è ora sempre più diffuso e sta offrendo ai lavoratori-studenti opportunità che solo qualche anno fa erano impensabili.
Ciò che i professori “tradizionali” faticano davvero a comprendere è che, dati alla mano, il bacino di utenza delle telematiche è differente rispetto a quello delle università presenziali. Mentre sarebbe utile che tutti si sforzassero di darsi da fare per migliorare l’istruzione superiore, la cui qualità e quantità colloca l’Italia nel gradino più basso fra i paesi sviluppati, ad un passo dal terzo mondo indifferenziato, i professori “in presenza” sono convinti di essere in lotta con le telematiche per accaparrarsi gli studenti.
Dati alla mano, il bacino di utenza interessato allo studio per via telematica è diverso da chi sceglie un percorso in università tradizionale. I lavoratori-studenti, sono un fenomeno nuovo, ma in Italia esistono diciotto milioni di diplomati non laureati. Questo gruppo particolarissimo è il più numeroso d’Europa, anche in virtù del bassissimo tasso di laureati nella fascia dei giovani adulti (31% fra i 25-34 anni in Italia paragonato a una media OCSE del 47% nel 2023).
Quindi da un lato le telematiche rispondono con metodi nuovi a una domanda particolare, che, in una sorta di riproposizione della “legge degli sbocchi” (o legge di Say), deriva anche dalla nuova offerta che si sta sviluppando. Non è la concorrenza con le università tradizionali, e in particolare pubbliche, a determinare la crescita delle telematiche, ma l’aver dato una risposta alle ben legittime aspirazioni di promozione e riuscita sociale di milioni di lavoratori non laureati in questo paese. Si tratta di un gruppo enorme, dimenticato completamente dagli atenei tradizionali (invece una trentina di anni or sono esistevano ancora lezioni serali per studenti lavoratori alla Statale di Milano), che trova per la prima volta nella storia un’offerta realistica e concreta. Chi riesce a conciliare studio e lavoro vede nelle telematiche nuove opportunità per realizzare i propri piani di vita.
La questione fondamentale riguarda però le lezioni erogate con modalità telematica. Nessuno al mondo ha mai sostenuto che online non si possa imparare come e meglio che in presenza. Se dal punto di vista del vissuto internet si rivela un pallido simulacro del vero, al contrario la Rete si rivela uno strumento eccezionale quando si tratta di veicolare fredda scienza e conoscenza. E ormai stiamo affinando – mi sia consentito il noi, giacché insegno in una telematica – anche gli strumenti di controllo della conoscenza acquisita. Nonostante il mito della “facilità”, la percentuale di studenti che non superano gli esami è di gran lunga più alta a Pegaso rispetto alla Sapienza di Roma.
Le nuove tecnologie obbligano a un ripensamento del modello unico di didattica vincente per oltre due millenni. Occorrerà forse comprendere che, almeno potenzialmente, vi potrebbe essere una superiorità delle lezioni strutturate, preparate, volte a convogliare idee e informazioni agli studenti. Sfido chiunque a sostenere che 30 minuti serrati e ben ordinati, corredati da diapositive riassuntive, dieci pagine di dispense e una serie di domande volte a saggiare il livello di comprensione degli studenti, valgano meno della media lezione accademica in presenza. Come minimo, vi è un enorme vantaggio per il discente che può da un lato seguire le lezioni come e quando vuole, dall’altro usufruire di contenuti didatticamente strutturati e pensati per lui.
Il vero peccato originale delle università online, allora, è che stanno in piedi o cadono solo grazie al gradimento degli studenti-consumatori e questo non può essere tollerato in un sistema come quello italiano in cui tutto ruota intorno ai professori e all’esaltazione del “pubblico” contro il “privato”. Ogni anno il più importante gruppo privato che controlla tre università telematiche paga all’erario italiano 50 milioni di tasse. Ossia, sempre per restare nel medesimo sistema, il gruppo Multiversity paga lo stipendio a mille professori universitari pubblici, finanziati con la fiscalità generale (il 7% del totale).
In ogni caso, il sistema di reclutamento del personale docente è ovviamente unico e passa attraverso l’abilitazione scientifica nazionale (ASN). Le università dovrebbero arruolare sempre i migliori, mentre le commissioni concorsuali nazionali e locali dovrebbero parimenti optare per gli studiosi più preparati.
La guerra contro le telematiche appartiene alle tipiche battaglie di retroguardia delle classi dirigenti premoderne. Ricorda molto da vicino il comportamento degli interessi di quei latifondisti che durante la rivoluzione industriale lottarono contro la libertà e il progresso chiedendo tariffe protettive. Paradigmatica è in Inghilterra la storia delle corn laws, che furono in vigore per un trentennio dal 1815. Ma alla fine la battaglia indefessa di Richard Cobden portò all’abolizione dei privilegi agrari. In piccolo le telematiche stanno conducendo una battaglia simile, fondata sulla ragione contro il pregiudizio.
Fonte: Luigi Marco Bassani* | Lisander.com
*Università Telematica Pegaso