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Il ruolo delle università: il caso americano

Leggo con apprensione, e una punta di tristezza, il dibattito sulla rivista Lisander innescato dal contributo di Lorenzo Ornaghi. Io, formatomi in Italia ma oramai da più di trenta anni negli Stati Uniti, non mi ero reso conto della trasformazione in atto nelle università italiane, che riflette un’altrettanto preoccupante delegittimizzazione delle università statunitensi, come osservato dal collega Aldo Rustichini.

Il fenomeno americano, però, è di dimensioni assai più preoccupanti di quello italiano, ed è causato, a mio avviso, da una confusione fondamentale su quali siano i clienti, se così si può dire, delle università. Mi riferisco qui agli studi undergraduate (corsi di laurea breve come diremmo noi) perché la situazione è assai differente a livello di dottorato, dove le università americane rimangono (con opportune eccezioni) leader mondiali – una discussione questa che richiederebbe un discorso separato e assai diverso.

I contributi cui ho fatto menzione in precedenza identificano due ruoli centrali per le istituzioni universitarie: la produzione di ricerca originale e la formazione della classe dirigente. Quindi, in entrambi i casi, identificano nella società il beneficiario primario dell’istituzione. Le università esistono per permettere lo sviluppo di quella ricerca di base che difficilmente verrà realizzata da industrie prigioniere del next quarter e affinché creino una classe dirigente qualificata – qualitificata non solo perché possiede specifiche skills, ma in quanto pure dotata di quelle qualità intellettuali di cui la società ha bisogno. Così Gramsci, quando nei suoi Quaderni dal Carcere parla dell’importanza del rigore nelle scuole, ci ricorda (con parole quasi commoventi nella sua passione per il ruolo degli studiosi) che nelle aule «si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse “coattivamente”, per “coercizione meccanica”, assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno».

Se questo è quello che ci dovremmo aspettare dalle istituzioni universitarie, allora è chiaro che il modello americano ha completamente tradito queste aspettative, e purtroppo mi sembra lo stesso stia avvenendo anche in Europa.

Nell’immaginario collettivo statunitense, e nelle menti di troppi amministratori delle università americane, il beneficiario del lavoro svolto all’interno di una università non è più la società ma lo studente individuale ovvero i genitori che pagano alte tasse d’iscrizione.  Questa distorsione è letale per il modo in cui le università si sviluppano e ha condotto a una serie di scompensi che non solo hanno prodotto una crescita smodata nei costi universitari (ma non nella qualità di ciò che gli atenei offrono), ma ha parimenti reso chiaro come le università, in questa corsa all’enrollment, abbiano tradito gli stessi clienti che volevano soddisfare. Il tradimento si è consumato perché anziché offrire agli studenti ciò di cui essi hanno davvero bisogno, si offre loro quello che vogliono. Le università sono diventate dei medici che invece di raccomandare al paziente di svolgere più attività fisica e di mangiare meno, lo invitano invece a cena offrendo pasti luculliani ad alto tasso di zuccheri e colesterolo, nella speranza che il paziente continui a servirsi di loro.

Ecco quindi che le università spendono cifre assai ingenti per il marketing, quasi fossero concessionari di automobile. E questo marketing si basa troppo spesso su aspetti che un’istituzione dedicata allo sviluppo intellettuale degli studenti dovrebbe considerare minori. La qualità delle residence hall, l’aggiornamento degli apparati sportivi, la quantità e qualità delle opportunità che l’università offre per la vita sociale degli studenti (quali clubs, fraternities e sororities, con i loro antiquati riti di iniziazione, mixers e orientamento per i nuovi arrivati, proprio come al Club Mediterranee all’inizio della settimana di vacanza), come se fosse responsabilità dell’ateneo aiutare gli studenti a trovarsi fidanzatini e fidanzatine: un processo che personalmente ho sempre pensato dovesse essere estraneo alle mansioni dell’accademia.

Ma non è solo il marketing che riflette questa percezione perversa delle università americane. Ormai anche gli studenti possono dare i voti, per così dire, ai loro docenti, con il prevedibile risultato che i professori diventano sempre più indulgenti perché, naturalmente, non hanno nessun interesse a ricevere le valutazioni negative che un corso rigoroso susciterebbe. Quando ero direttore di un dipartimento di matematica in una università della East Coast, fui chiamato dal preside perché le valutazioni dei miei professori erano le peggiori dell’intera facoltà. Feci non poca fatica a spiegare che queste valutazioni erano correlate con i voti che davano i miei docenti, e che riflettevano non una loro carenza, ma piuttosto quella delle scuole superiori che non avevano preparato adeguatamente gli studenti per i rigori del calcolo differenziale.

E dove collocare il problema, anche questo perverso, dei rankings, che ho visto con orrore sono diventati importanti anche in Italia. Su cosa si basano questi rankings? Si basano su un concetto vago di reputazione, che spesso tradisce ignoranza e pigrizia. Si racconta che in un test condotto qualche anno fa, a vari presidenti (rettori, per dirlo all’italiana) di università americane fu chiesto di offrire un ranking delle facoltà di legge. Una delle facoltà che raccolse il più grande numero di voti positivi fu quella della Princeton University. Nulla di strano, naturalmente, tranne il fatto che questa università non ha una facoltà di legge!

Ma che altro conta per il ranking? Contano le pubblicazioni in riviste Q1 (un altro strano metodo di valutare la qualità che sostituisce il numero di citazioni – facilmente manipolabile – a una valutazione seria), e conta, cosa assai strana, la graduation rate, vale a dire la percentuale di studenti che si laurea entro 4 o 6 anni. Apparentemente una misura ragionevole dell’efficacia di una istituzione ma, conoscendo la natura umana, un ulteriore incentivo per abbassare il rigore istituzionale attraverso la cosiddetta “inflazione dei voti”.

Come ha osservato Rustichini, però, c’è almeno un’area nella quale le università sembrano ancora accettare il loro ruolo sociale, ma questo avviene attraverso la policitizzazione dell’insegnamento, cosa oramai prevalente (non è necessario che sia io a fornire i dati che si trovano facilmente) nelle facoltà umanistiche e nelle cosiddette scienze sociali. Ma si tratta qui di un ruolo sociale perverso, perché la società non si arricchisce quando noi creiamo degli automi pronti a ripetere in maniera acritica un certo numero di asserzioni; la società si arricchisce se riusciamo a creare individui capaci di analizzare e di raggiungere diverse conclusioni, con lo scopo poi di un confronto coraggioso e aperto.  La risposta di studenti e professori alla tragedia del 7 ottobre 2023 è forse la testimonianza migliore del fallimento anche di quelle che uno poteva pensare fossero le istituzioni più prestigiose.

Si può trovare speranza in questo scenario?  Io credo di no. Le forze di mercato che hanno trasformato le università americane e la debolezza costituzionale dei loro professori, non lasciano, a mio avviso, molto spazio per l’ultima dea, ma forse noi in Italia possiamo tentare di sfuggire alla passiva imitazione dei difetti d’oltreoceano e così ritrovare la capacità di evitarne gli effetti peggiori e più deleteri.

Fonte: Daniele C. Struppa* | Lisander.com

*Chapman University, Orange, California

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