CHIAVARI – Il racconto di don Federico Pichetto, ex adolescente difficile, oggi vicepreside di un liceo a Chiavari: dico ai ragazzi che ogni ferita apre a una promessa. Aiutiamoli a parlare dei loro progetti
Don Federico le ferite le ha imparate a conoscere prima sulla propria pelle. Abbandonato a pochi giorni di vita, adottato qualche mese dopo, adolescente “difficile” e inquieto, a 13 anni si trova a fare i conti con un ictus della mamma adottiva per poi trovarsi catapultato in un’altra famiglia, in affido. S’interroga sul perché dell’abbandono, il senso della vita e il significato dell’amore, fino a trovarne la risposta nella lettura della Bibbia, a casa della nonna. E finalmente, in uno dei momenti più caotici della sua vita, l’incontro con dei ragazzi che, come lui, desiderano una compiutezza. Fino a maturare la vocazione a farsi prete, a 25 anni, perché «desideravo tutto per me e ho scoperto che io potevo essere amato, nonostante tutto».
Da quel momento, don Federico Pichetto, 40 anni, ha passato la sua vita a fare i conti con le ferite degli altri ragazzi, da quando il vescovo di Chiavari lo ha chiamato a insegnare religione in un liceo classico, scientifico e linguistico, per poi diventarne vicepreside (ha vinto l’Italian teacher award per uno dei sei migliori progetti didattici d’Italia). La sua passione per i giovani lo ha portato a fondare e dirigere la “Casa San Michele”, in aiuto agli studenti universitari del Tigullo.
Di recente, è diventato anche direttore della scuola di formazione teologica della diocesi. «Ḕ l’esperienza delle nostre ferite che determina la percezione di noi stessi – spiega. Io ho paura, ancora oggi, a 40 anni, che gli altri mi abbandonino. In un frangente storico rivoluzionario in cui si assiste a una frattura dell’io, e quindi a un ultimo cinismo, i ragazzi costruiscono il mondo a partire dalle ferite vissute. Ma questo mondo sarebbe sbilanciato, se dimenticassimo che ogni ferita parla con una promessa, con l’intuizione che siamo fatti per qualcos’altro d’infinitamente più grande».
Il disagio giovanile sempre più dilagante nasce proprio dal fallimento di questo dialogo. Riflette una crisi più ampia, legata al cambiamento epocale degli ultimi decenni e ai fattori educativi, sociali e culturali connessi. La prevenzione dei disturbi però non è solo un tema clinico, ma riguarda la comunità, la famiglia, la scuola, la rete sociale. Gli ultimi dati sulla dispersione scolastica del Mim riferiscono di un ragazzo su cinque che abbandona gli studi alle superiori.
Ma più che una cura serve intercettare il bisogno di significato dei ragazzi, spesso lasciato in ombra. Come testimonia la storia di uno studente di quinta, gravemente bullizzato, che entrava continuamente a piangere nell’ufficio di don Federico. «La situazione ha iniziato a cambiare – racconta – quando una volta, per caso, ha iniziato a parlarmi dei suoi progetti e dei suoi desideri. Nella misura in cui impariamo a mettere in dialogo le nostre ferite e le nostre promesse, diventando genitori di noi stessi, siamo conseguentemente capaci di aiutare i ragazzi che incontriamo. Troppo spesso adulti irrisolti si arrogano il diritto di risolvere la vita degli altri. Ma solo un adulto in cammino può essere davvero di aiuto al cammino dell’altro».
Ecco perché «la cosa più importante che possiamo fare per tutti quelli che incontriamo – conclude – è restituire realtà, bisogno di umanità, curiosità per l’umano. Il cuore e il senso di ogni educazione libera è pensare in fondo che i giovani non sono teste da riempire, ma storie da incontrare». Che il disagio giovanile sia un fenomeno in continua crescita, lo confermano anche i dati clinici. In Italia, i disturbi specifici di apprendimento sono attualmente presenti con valori tra il 3 e il 5 per cento, secondo i dati del Mim del 2020. Negli ultimi dieci anni, si è assistito a un aumento di oltre il 400 per cento degli alunni con Dsa. Nel 2010, infatti, gli alunni con questa diagnosi erano 64.227, pari allo 0,9 per cento della popolazione degli alunni totale, mentre nel 2020, erano 298.114, pari al 4,9 per cento degli alunni totali. Il Covid poi ha fatto da amplificatore a una tendenza che c’era già e che rischia di togliere tutta la bellezza che l’adolescenza costituisce.
«Purtroppo spesso gli adulti tendono a delegare i problemi alla scuola – interviene Luca Luigi Ceriani, psicologo e psicoterapeuta, che collabora con la facoltà di Psicologia dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e ha da poco pubblicato “Agio o disagio, domande e risposte sulla sfida di crescere” (Edizioni Ares, 2024) -. Paghiamo le conseguenze dell’ondata relativista del ’68, che ha distrutto valori e punti di riferimento, portando disorientamento. In realtà, il compito dell’adulto è quello di introdurre i figli nella realtà sociale. L’educazione non è un metodo tecnico ma procede per tentativi ed errori, cominciando con il mettere in gioco prima di tutto se stessi». Oggi, però, si assiste a un’eccessiva tendenza a classificare in categorie diagnostiche qualsiasi tipo di difficoltà e a definirlo subito come un disturbo specifico. E, spesso, anche il rivolgersi troppo spesso a uno specialista può diventare una sorta di delega.
«Serve un cambio di prospettiva – continua Ceriani –. Ḕ giusto chiedere una diagnosi o il parere di un esperto dove ci sono difficoltà evidenti, ma l’eccesso di diagnosi senza un minimo di fondamento rischia di portarci fuori strada. Non si coglie l’aspetto positivo legato al cambiamento e alla transizione. L’adolescenza, in quanto tale, è un periodo che passerà e dovrebbe generare adulti che non ne temono il disagio, ma che lo accolgono». Il rapido sviluppo della tecnologia a disposizione di tutti, anche dei bambini, rischia poi di creare una sovrapposizione tra realtà e virtualità, portando l’adolescente a vivere la sua realtà nella virtualità.
«Uno degli inganni degli adulti – conclude Ceriani – è ritenere che i ragazzi non debbano correre rischi. Da 40 anni, porto i miei giovani pazienti a scalare le montagne, esponendoli in una condizione di rischio. Ḕ vero che noi in parte siamo la storia che abbiamo, ma ad un certo punto dobbiamo incominciare a scriverci un’altra storia, a prendere in mano la nostra vita con tutti i rischi che questo comporta. Ciò che manca ai nostri adolescenti è la possibilità di sbagliare, il fallimento come possibilità reale d’incontro con gli eventi della vita».
Fonte: Irene Trentin | Avvenire.it