La travagliata vicenda relativa alla accusa di doping mossa al tennista professionista Jannik Sinner suggerisce alcune riflessioni.
Senza entrate nel merito della vicenda, nota per la sua dinamica e per il quantitativo infinitesimale di sostanza dopante che l’atleta ha assunto indirettamente (circostanza pacifica in atti), perché il prodotto è stato usato da un suo fisioterapista per curare una indisposizione dello stesso fisioterapista, è, però, necessario operare una valutazione critica dell’operato della WADA (l’Associazione mondiale per la lotta al doping) in relazione alla impugnazione recentemente proposta innanzi al Tribunale Arbitrale per lo Sport (T.A.S.), con sede a Losanna.
Come è noto la lotta al doping, dal termine inglese dope, che alla fine dell’ottocento indicava l’attività di preparazione di sostanze destinate a migliorare la prestazione dei cavalli da corsa, nasce soltanto a partire dal periodo successivo alla XVII Olimpiade, durante la quale si verificò il decesso del ciclista danese Enemark e conseguentemente si avviarono le riflessioni per il contrasto ai comportamenti dopanti, a tutela della salute degli sportivi.
Alla luce di ciò, nel 1967, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa adottava una risoluzione finalizzata a stigmatizzare la “assunzione di sostanze estranee all’organismo o di sostanze fisiologiche prodotte in misura abnorme al solo scopo di influenzare artificialmente ed in modo sleale, la prestazione sportiva.
Deve essere anche ricordato che, in precedenza, in Italia, era stata emanata la legge del 28 dicembre 1950, n. 1055, finalizzata alla tutela sanitaria delle attività sportive, anche se in essa non era specificamente prevista la repressione del doping.
Come è facile rilevare, dalla loro lettura, le norme dettate per la battaglia ai comportamenti dopanti, sin dalla loro origine, avevano un duplice scopo: A) la tutela dell’atleta, che poteva risentire, nell’immediato o in tempi lunghi, dell’assunzione di sostanze dopanti, le quali avevano anche la finalità di innalzare la soglia della fatica, costringendo lo sportivo a valicare i limiti a lui imposti dal fisico; B) l’alterazione del risultato sportivo, che poteva essere gravemente inciso da attività sleali idonee ad alterare la regolarità della competizione.
Operate queste premesse, venendo ad una, sia pur sommaria, analisi della vicenda, relativa al tennista italiano, è noto che il prodotto individuato nelle analisi che riguardavano il Sinner è stato ravvisato in misura infinitesimale ed è scientificamente provata, oltre alla innocenza dell’atleta, che ha indirettamente assunto la sostanza, utilizzata da altri, anche la impossibilità, a causa della irrilevanza del quantitativo di alterare il risultato sportivo.
Da questa generale analisi è possibile rilevare che siamo ben lungi dalle finalità che le norme si prefiggono per la lotta al doping, in quanto – come detto – non solo la salute dell’atleta non può essere intaccata da tale irrilevante ed indiretta assunzione, ma neppure il risultato sportivo può esserne alterato. Siamo, dunque, oltre i confini delle finalità che hanno determinato, nel 1999 nell’ambito della prima Conferenza europea dello sport, svoltasi significativamente ad Olimpia, la nascita della Agenzia mondiale antidoping (WADA).
Invero, la mancata attenzione alle finalità che ha portato alla istituzione dell’Agenzia rischia di far perdere alla stessa la sua autorevolezza e credibilità, dando vita ad un clima da “caccia alle streghe”, che la distoglie dalla sua effettiva ed importante funzione, rischiando nell’immaginario collettivo, di trasformarsi, come accadde per la “inquisizione”, in uno strumento poco affidabile e lontano dalla idea ispiratrice, inoltre gestito senza il buon senso che ogni organo giurisdizionale e para-giurisdizionale deve avere per garantire il “buon andamento”.
Fonte: Piero Sandulli | CentroStudiLivatino.it