Nell’ampio e interessante dibattito avviato dall’intervento del professor Lorenzo Ornaghi è facile riconoscere l’emergere, a più riprese, del modo sostanzialmente schizofrenico con cui oggi la cultura prevalente affronta i temi dell’istruzione.
Quando si prendono in esame le classi in cui studiano i più giovani (fino alla maturità, per intenderci), la parola d’ordine è “inclusione”. La tesi è che il sistema scolastico debba essere innanzi tutto focalizzato sui deboli, quali che siano le ragioni di tale fragilità, e quindi si preoccupi di valorizzare al massimo quanto favorisce la crescita e lo sviluppo di tali soggetti. Nessun benpensante scriverebbe mai sul “Corriere della sera” oppure su “La Repubblica” che abbiamo bisogno di asili o scuole primarie per gli eccellenti, né – peggio ancora – che si debba tornare a quelle “classi differenziali” che scomparvero soltanto negli anni Settanta. Ancor meno sarebbe accettabile l’idea di lasciare indietro quanti fanno più fatica a studiare. Al contrario, è convinzione largamente condivisa che ognuno, a scuola, debba trovare una propria strada e che sia compito del sistema educativo favorire il pieno sviluppo delle sue potenzialità.
È però curioso come tutto muti quando si discute di università. In questo caso il mantra è quello dell’eccellenza (dell’alta qualità) e da più parti s’invoca una costante azione dell’apparato statale, chiamato a vigilare in maniera sempre più rigorosa sul livello degli studi e dei laureati. Compiuti i 18 anni, insomma, non è più importante offrire a qualsiasi giovane una chance (inclusione), ma invece tutelare un sistema universitario che in linea teorica sia capace di assicurare un livello il più possibile elevato (eccellenza). Se si ragiona sull’università, meritocrazia ed elitarismo prendono il sopravvento sull’inclusione e sul diritto di ognuno a studiare.
Da qui deriva pure una finzione, a cui molti sembrano credere: e cioè che i nostri atenei siano tutti o quasi di ottimo livello. In realtà, le università italiane non compaiono in cima ai ranking internazionali, non attirano molti studenti stranieri, non producono – a parte qualche rara eccezione – un numero elevato di ricerche veramente innovative. Eppure il sistema italiano continua a crogiolarsi nella convinzione di disporre di una qualità che invece spesso manca, e lo fa – ad esempio – distribuendo bollini di “eccellenza” (il termine è proprio questo…) a taluni propri dipartimenti.
In questa breve riflessione, a ogni modo, non si tratta di valutare quanto sia alta la qualità degli atenei italiani. La considerazione che si vuole sviluppare è invece che non ha molto senso ritenere che fino a quando hai 18 anni il sistema d’istruzione debba fare in modo che tu possa ottenere il meglio da te (quale che sia il tuo punto di partenza), e poi invece pretendere che – per poter intraprendere un percorso universitario – tu abbia abilità e competenze di cui sei sprovvisto. Come se fosse normale una situazione che continua a essere caratterizzata da un bassissimo numero di laureati (in Europa solo la Romania fa peggio dell’Italia) oppure dall’illusione – che contrasta sia la realtà, sia la logica – che tutti possano essere “eccellenti”.
D’altra parte, esistono scuole medie superiori differenti, e non tutte davvero difficili, ma è proprio questo che permette a ogni studente di trovare un suo percorso formativo. Perché non accettare che tutto ciò avvenga pure all’università?
Sarebbe bene, insomma, che s’iniziasse a comprendere che non si può essere inclusivi fino a un certo punto, per poi convertirsi in elitari. Anche perché, fortunatamente, le nostre università non sono affatto così, dal momento che accanto ad atenei che cercano con fatica di competere con le migliori realtà internazionali abbiamo pure realtà (spesso piccole e locali) che sono consapevoli del loro livello e del ruolo che svolgono. Tante nostre università si rivolgono essenzialmente al territorio in cui si trovano e hanno la funzione di formare figure competenti, che siano utili a quella specifica comunità: come insegnanti, commercialisti, agronomi, ecc. Non tutte le università si pensano una sorta di MIT o Harvard in potenza, perché sanno bene che il loro ruolo consiste nel preparare i professionisti di cui quell’area ha bisogno.
È allora evidente come l’astio di larga parte dell’accademia italiana verso le università telematiche, che s’indirizzano soprattutto ai lavoratori-studenti e agli studenti-lavoratori (ma anche a chi ha interrotto i propri studi in un’università statale tradizionale e intende riprenderli), evoca costantemente l’esigenza di tenere quanto più alta sia più possibile l’asticella. La tesi sottesa, davvero discutibile, è che il sistema d’istruzione online sia peggio di quello detto “in presenza” (che a causa del crollo delle frequenze sarebbe meglio definibile come “in assenza”).
A tale proposito c’è davvero da domandarsi se sia preferibile studiare a casa usando esclusivamente i libri oppure – come nel caso degli studenti delle università online – se non sia preferibile avere la possibilità di seguire i video del docente, leggere le dieci pagine di sintesi scritta di ogni lezione, seguire le slide e utilizzare le domande predisposte per l’autovalutazione di ciascuna delle lezioni registrate. Questi atenei, per giunta, si avvalgono in maniera molto importante e originale di quei tutor didattici che affiancano il docente e in questo modo favoriscono il percorso di apprendimento dei frequentanti questo o quel corso di laurea.
Per giunta, è fuor di dubbio che in questa fase storica gli studenti provenienti dai ceti più elevati hanno la possibilità di seguire un liceo, prima, e di frequentare un’università tradizionale, poi. Ma questa loro condizione non dovrebbe essere usata per impedire a quanti non hanno tale opportunità di seguire egualmente un proprio percorso di formazione e crescita: sia culturale, sia professionale. Oggi nessuno si sogna – discutendo delle scuole medie superiori – di eliminare ogni istituto tecnico e/o professionale, per mandare tutti i ragazzi al liceo classico.
Lo stesso uso retorico dell’argomento secondo cui le università telematiche non farebbero ricerca lascia il tempo che trova. Per due ordini di ragioni. I professori ordinari e associati di un’università online possono essere tali in ragione del conseguimento della medesima idoneità ottenuta dai loro colleghi delle università tradizionali; e per avere tale idoneità essi hanno dovuto superare talune mediane e ottenere l’approvazione della commissione esaminatrice.
Di conseguenza ci possono essere telematiche in cui si fa più ricerca e altre in cui la situazione è diversa: esattamente come succede negli altri atenei. Ma se anche fosse vera l’accusa di essere essenzialmente teaching university, questo non le renderebbe meno utili e meno indispensabili.
Sottolineare questo non significa affermare che le università debbano essere meno ambiziose, ma soltanto che è bene che ognuna di esse comprenda con realismo quale è oggi il suo ruolo. Perché è necessario offrire opportunità pure a quanti, per le ragioni più diverse, hanno difficoltà a eccellere.
In termini molto generali va aggiunto che ogni mercato è chiamato a rispondere a domande differenziate: vi sono imprese automobilistiche che producono utilitarie e altre che realizzano vetture assai più costose ed esclusive. Quello che vale per le automobili vale per ogni altro bene o servizio.
D’altra parte, nel contesto europeo la Svizzera è sicuramente una realtà universitaria di alto livello. In particolare il politecnico di Zurigo è uno degli atenei più premiati da ogni classifica internazionale. Il sistema elvetico include, però, anche atenei meno selettivi, ostici e competitivi. È sufficiente arrivare a Lugano per vedere che accanto all’USI, che è un’università di recente costituzione ma assai internazionalizzata (la quale cerca di competere con il meglio dell’accademia europea), abbiamo un’istituzione come la SUPSI, che ha come proprio fine istituzionale quello di offrire corsi utili a formare figure (insegnanti, operatori sociali, tecnici ecc.) utili alla regione ticinese.
Abbiamo dunque bisogno di università di ogni tipo: diverse tra loro. Alcune devono innanzi tutto puntare all’eccellenza e anche selezionare gli studenti più promettenti, mentre altre devono saper accogliere, far crescere e formare quanti magari non sono così dotati e/o fortunati (ad esempio, non hanno avuto la possibilità a quindici anni di studiare l’inglese nelle vacanze-studio), ma hanno diritto di giocare le loro carte e certamente possono dare un loro fondamentale contributo alla vita sociale.
Quando i professionisti dell’accademia capiranno tutto questo, un certo spirito da crociata, figlio di una logica aristocratica, potrà essere messo da parte: nell’interesse di tutti.
Fonte: Carlo Lottieri* | Lisander.org
*Università Telematica Pegaso