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La crisi franco-tedesca e la possibile rinascita dell’Europa dalle sue radici spirituali

Con la simultanea crisi – politica ed economica – di Germania e Francia, l’egemonia di questi due Paesi sull’Unione europea si appanna molto. Si apre una nuova fase. Di fatto oggi l’unico dei grandi Paesi fondatori davvero stabile, sia politicamente che economicamente, è l’Italia e questo spiega perché Ursula von der Leyen ha cambiato maggioranza per la sua nuova Commissione puntando sulla presenza dell’Italia.

Ma adesso – in un contesto internazionale di guerra e alla vigilia dell’insediamento del presidente Trump negli Stati Uniti – bisogna riflettere su quale Unione europea e quale Europa (non sono la stessa cosa) occorre (ri)costruire.

Se è vero che Von der Leyen ha già impresso una correzione politica al suo programma, per la diversa maggioranza che la sostiene (meno di sinistra e più di destra), è anche vero che la precedente impronta della UE rimane, perché prima di diventare una politica è stata (ed è) un’ideologia. E una visione ideologica si batte solo con una cultura diversa e alternativa.

Il cosiddetto “Piano Draghi”, che qualcuno ha voluto presentare quasi come una sorta di nuovo manifesto programmatico della Ue, in realtà è solo un documento sulla competitività e non rappresenta una svolta culturale.

Quella che ha dominato finora, nella Ue, è stata un’edizione europea – in salsa ecodirigista – della disastrosa ideologia woke americana: l’ideologia che è uscita sconfitta dalle recenti elezioni presidenziali.

Ma se lo schieramento – politico e culturale – trumpiano ha potuto vincere cominciando a ricostruire una “cultura delle radici” che si è opposta e si oppone al virus woke, per riportare – come dice Trump – “il buon senso”, ritrovando l’identità della nazione americana, si fatica a vedere un’analoga svolta culturale europea.

Tuttavia alcuni preziosi spunti di riflessione arrivano da intellettuali non proni al mainstream. Per esempio, negli stessi giorni in cui a Strasburgo si votava la nuova Commissione europea, il filosofo e storico francese Rémi Brague ha tenuto una lectio magistralis, presso la Fundaciòn Neos di Madrid, su questo tema davvero attuale: Perché l’uomo occidentale odia se stesso?”.

Ha suscitato un certo dibattito sui giornali italiani. Ma quella di Brague non è che lo sviluppo della storica Dichiarazione di Parigi del 2017 firmata – oltre a Rémi Brague – da intellettuali come Roger Scruton, Robert Spaemann, Pierre Manent, Chantal Delsol e Ryszard Legutko.

In quel documento davvero profetico si diceva che “l’Europa, in tutta la sua ricchezza e la sua grandezza, è minacciata da un falsa concezione di sé stessa”, che smercia “caricature a senso unico della nostra storia” con “un pregiudizio invincibile contro il passato”.

Secondo quei firmatari i “padrini dell’Europa falsa” sono coloro che “altezzosi e sprezzanti” sono “incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo”. Coloro che “ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa”, ma “allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza”.

Così, scrivevano i firmatari di questo appello, “siamo in un vicolo cieco”. Perché “la minaccia maggiore per il futuro dell’Europa” non arriva dall’esterno: “L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive”.

Alcuni pensieri importanti del documento: “L’Europa vera è una comunità di nazioni … Lo Stato-nazione è diventato il tratto caratteristico della civiltà europea. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio (…). Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto”.

Fra le critiche va ricordata questa: “la vita dell’Europa si fa sempre più globalmente regolamentata. Ci sono regole, spesso predisposte da tecnocrati senza volto, che governano le nostre relazioni professionali, le nostre decisioni nel campo degli affari, i nostri titoli di studio, i nostri mezzi d’informazione e d’intrattenimento, la nostra stampa. E ora l’Europa cerca di restringere ancora di più la libertà di parola, una libertà che è stata europea sin dal principio”.

Ricordavano, per esempio, la difficoltà di dire “certe verità sconvenienti sull’islam e sull’immigrazione” perché “la correttezza politica impone tabù così forti da squalificare in partenza qualsiasi tentativo di sfidare lo status quo.

I firmatari inoltre mettevano in guardia dall’“uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale”. E osservavano che negli anni gran parte della “nostra classe dirigente” ha puntato sull’“accelerazione della globalizzazione” mirando “a dar vita a istituzioni sovranazionali che possano controllare senza l’inconveniente della sovranità popolare. Legittimati da presunte necessità economiche o attraverso l’elaborazione autonoma di una nuova legislazione internazionale dei diritti umani, i mandarini sovranazionali delle istituzioni comunitarie europee confiscano la vita politica dell’Europa, rispondendo alle sfide in modo tecnocratico: non esiste alternativa. È questa la tirannia morbida ma concretache abbiamo oggi di fronte”.

Sono solo alcune delle riflessioni di quella Dichiarazione. Parole dure e forti, che andrebbero discusse. Ma anche un contributo prezioso per ripensare l’UE.

Fonte: AntonioSocciBlog.com

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