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Il divino materialismo del Natale dal Nobel norvegese Jon Fosse

Il vino ha a che fare con il divino. Perché fa capire una cosa importante del cattolicesimo. Non a caso Gesù fece il primo miracolo, alle nozze di Cana, proprio con il vino e l’ultimo suo gesto supremo – l’istituzione dell’eucaristia – insieme al pane ebbe di nuovo al centro il vino che da duemila anni – nella liturgia cattolica – diventa il salvifico sangue di Cristo.

È una considerazione un po’ spericolata, ma viene in mente leggendo il libro-intervista che Jon Fosse, Premio Nobel per la letteratura 2023, ha scritto con, Il miste Eskil Skjeldalro della fede (Baldini-Castoldi).

Lo scrittore norvegese, che in queste pagine spiega la sua conversione al cattolicesimo, racconta di essere uscito dalla Chiesa di Stato luterana, a 16 anni, “perché lì, nella chiesa, o nel cristianesimo (…) come ho avuto modo di viverlo io, non c’era mistero, o almeno non c’era nel luteranesimo letterale e pragmatico di Strandebarm. La cosa più ‘mistica’ che ricordo di aver sentito dire dal pastore durante un sermone (…) era stata la sua affermazione secondo la quale il vino ai tempi di Gesù doveva essere analcolico”.

In un altro passaggio dice: “Via via, con il passare del tempo, ho trovato più verità, vita sincera e calore umano tra i miei compagni di bevute che negli ambienti cristiani. Erano loro a essere molto più vicini alla verità, sì, in un certo senso più vicini a ciò che è cristiano”.

È un’intuizione molto interessante. In effetti – rispetto a una religiosità cupa che vede il mondo come male – la dimensione della comunità, della convivialità e della festa è tipica del cattolicesimo, che è legato alla materialità già con i suoi sacramenti (tutti segni fisici) e ha partorito espressioni artistiche che esaltano i sensi corporali.

Il cattolicesimo è centrato sull’incarnazione e va verso la resurrezione dei corpi, cosicché abbraccia e trasfigura tutto quello che è materiale. È un divino materialismo.

Tomaso Montanari ha scritto: “Se c’è un’epoca in cui il corpo è davvero tutto nella storia dell’arte, ebbene quell’epoca è il Rinascimento quando, potremmo dire, l’arte torna davvero a incarnarsi. ‘E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi’. Lo aveva annunciato Giovanni, all’inizio del suo Vangelo. Comunque la si pensi, in qualunque cosa si creda o non si creda, il Natale è la festa della nostra carne, cioè della nostra realtà, della nostra debolezza, della nostra fragilità. Si celebra il Dio lontano che viene a piantare la propria tenda fra gli uomini, che ne assume la carne e dunque ne condivide il destino. Il Dio che, umanizzandosi, divinizza l’uomo”.

Infatti – tornando al vino – Benedetto XVI ha scritto che “il vino esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino ‘allieta il cuore’. Così il vino e con esso la vite sono diventate immagini anche del dono dell’amore, nel quale possiamo fare qualche esperienza del sapore del Divino”.

E ancora: “Mentre il pane rimanda alla quotidianità, alla semplicità e al pellegrinaggio, il vino esprime la squisitezza della creazione: la festa di gioia che Dio vuole offrirci alla fine dei tempi e che già ora sempre di nuovo anticipa a modo di accenno mediante questo segno. Ma il vino parla anche della Passione: la vite deve essere potata ripetutamente per essere così purificata; l’uva deve maturare sotto il sole e la pioggia e deve essere pigiata: solo attraverso tale passione matura un vino pregiato”.

Fonte: AntonioSocciBlog.com

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