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Sulla perdita di identità dell’Università*

Chiediamoci: in che cosa differisce il Dipartimento di chimica, mettiamo dell’Università di Pavia, da quello dell’Università di Shangai? In molte cose credo, a cominciare certamente nella quantità dei fondi a loro disposizione. Ma di certo non in ciò che dal punto di vista dell’istruzione più conta: vale a dire nel contenuto dei vari insegnamenti di quel dipartimento. Non esiste infatti una chimica cinese e una chimica italiana. In entrambi si insegneranno le stesse cose. E più o meno lo stesso avviene sicuramente per ciò che riguarda tutte le altre discipline di carattere scientifico.

Ben diversamente stanno le cose se ci spostiamo nei dipartimenti umanistici e per ciò che riguarda le materie che vi si insegnano.  Qui infatti domina la diversità perché diversi, spesso radicalmente diversi da un Paese all’altro, sono gli interessi e gli orizzonti culturali, i punti vista, le identità sia di chi insegna e fa ricerca, sia degli studenti, così come sono diversi i Paesi stessi, le storie, le tradizioni cui gli uni e gli altri appartengono. Così come sono innanzitutto assai diversi gli stessi contenuti delle materie d’insegnamento.

Ciò accade per un fatto ovvio: perché le discipline umanistiche rappresentano i saperi (la storia, la letteratura, la filosofia, l’arte) che hanno peculiarmente a che fare con l’identità culturale di chi pratica quei saperi o li apprende. Perché le discipline umanistiche sono espressione diretta dell’identità culturale del Paese dove si trova l’Università nella quale gli uni e gli altri studiano. Insomma, per dire le cose in una maniera ancora più compiuta, le discipline umanistiche sono quelle che maggiormente contribuiscono a esprimere e insieme a conferire, trasmettendola, una tale identità. Proprio perciò, d’altra parte, le discipline umanistiche costituiscono dovunque il cuore di ogni percorso educativo, il cuore dell’istruzione. Noi siamo italiani, come altri sono svedesi o giapponesi, in misura decisiva grazie all’istruzione umanistica che abbiamo ricevuto. Se durante tutto il nostro percorso educativo ci fossimo limitati a studiare solo chimica, biologia, fisica tecnica, ed economia aziendale, saremmo culturalmente (e non solo) degli abitanti del nulla, dei veri e propri apolidi.

Figlia essa per prima dell’umanesimo europeo, l’università come istituzione ha in esso il suo cuore, il cuore della propria identità. Ma a dispetto di tutto ciò, negli atenei italiani attuali le discipline umanistiche stanno agonizzando. Il numero dei loro docenti, del loro rilievo e la loro capacità caratterizzante ogni singola sede diminuiscono a vista d’occhio. Per almeno due ordini di ragioni.

La prima riguarda il generale processo di deculturalizzazione a base scientista in opera da tempo nelle società occidentali e dunque anche da noi. Non ne vogliamo sapere più nulla di tutto quanto non sia traducibile subito in qualcosa di concretamente utile. Ci sembra superfluo, senza scopo, qualunque sapere che non serva a inventare, a produrre o a migliorare una merce o un qualunque servizio sanitario o finanziario che sia, ovvero che non attenga al diritto, che come ognun sa è indispensabile a qualunque aspetto della vita sociale. Un’idea di modernità considerata unicamente sotto la specie della ragione strumentale e quindi della tecno-scienza domina ormai incontrastata l’istruzione di ogni ordine e grado.  Anche perché solo un’istruzione di questo tipo sembra capace di presentarsi sotto la veste accattivante di ciò che chiede il sempre invocato “mondo del lavoro”.

Si aggiunge poi a tutto ciò – ed è la seconda delle ragioni di cui dicevo sopra – la pressione continua che da almeno tre-quattro decenni esercita sul nostro sistema universitario quello che si decide a Bruxelles e che in quella sede si ordina anche a noi.  All’apparato burocratico-ideologico dell’Unione europea tutto quanto sa di “Humanities” non piace, ne diffida esattamente per le ragioni che dicevo poco fa, e il suo orientamento di tramuta ogni anno nella colossale diversità dell’ammontare dei finanziamenti destinati a questo o a quell’ ambito disciplinare. Come viene analiticamente mostrato nelle pagine di questo libro, da molti anni tale diversità è all’incirca di 9 a 1 a scapito delle materie umanistiche, le ricerche nell’ambito delle quali appaiono regolarmente penalizzate e neglette. In un’università povera come quella italiana ciò non può che avere come effetto il virtuale, inesorabile strangolamento, anche per questa via dello studio e della ricerca in interi campi disciplinari.

La spia più evidente – clamorosamente evidente, direi – della perdita di rilevanza culturale e di tale strangolamento finanziario europeo che si aggiunge naturalmente a quello da parte del governo di Roma, è la sempre più marcata diminuzione che si verifica da qualche decennio a questa parte nelle università italiana del numero dei docenti delle materie che hanno una più esplicito carattere umanistico.

Il veloce declino delle “Humanities”, proprio per il loro carattere di elemento storicamente costitutivo dell’istituzione universitaria, è il sintomo più significativo della crisi complessiva che affligge l’Università del nostro Paese. Ma è solo il sintomo. Nel determinare la crisi attuale che travaglia l’università un effetto più immediato va fatto risalire ad alcune scelte che in vario modo hanno snaturato la vita degli atenei.

La prima di tali scelte è consistita nell’introduzione del “3+ 2” con il relativo e immediato fallimento del nuovo dispositivo dovuto ai pochissimi studenti decisi a fermarsi alla laurea triennale, ridotta quindi al rango di un’assoluta inutilità o quasi. Chi ha un pur minimo rapporto con l’Università sa di che cosa parlo. La prima conseguenza del “3 più 2” e del sistema dei crediti che lo accompagnava è stata la moltiplicazione delle materie d’esame in seguito alla prevedibile fame di posti e di corsi da parte dei docenti e dei dipartimenti. Il che a propria volta ha voluto dire la   frantumazione/parcellizzazione degli insegnamenti, cioè dei saperi e dei format di ciascuno di essi, anche di quelli stabiliti dalla più consolidata tradizione. Dal canto suo, l’introduzione del sistema dei “crediti” sulla base di una ridicola equivalenza crediti/ore di studio/numero delle pagine da studiare per l’esame si è rivelato anch’esso un sistema ideale per abbassare il livello della preparazione degli studenti a un livello spesso realmente indecente. Ne è venuta fuori un’università dove si studia una materia in modo convulso e contratto al ritmo di sei perfino otto-dieci ora a settimana e per due mesi e mezzo al massimo tre, un tempo che però nei nostri atenei viene ribattezzato ridicolmente “semestre”.

Non sono sicuro se quanto sto per dire valga per tutti gli ambiti disciplinari ma quel che è certo è che il sapere umanistico – o per dir meglio la sua trasmissione alle giovani generazioni e la sua capacità formativa – è stato colpito al cuore dall’introduzione delle novità di cui sto parlando.

Il tempo fisiologicamente lento ma necessario all’assorbimento delle nozioni e alla loro elaborazione, scandito dal ritmo della lezione della durata di una sola ora ma per una durata di sette-otto mesi, secondo quanto avveniva in precedenza, è stato cancellato; così come è stato ridimensionato a quantità talvolta ridicole “il peso della carta”, cioè la quantità di sapere incorporato nei libri su cui oggi ci si deve preparare per i vari   esami.

Insidiate dall’insieme di questi fenomeni proprio nel momento del loro insegnamento, cioè nel momento della loro trasmissione/riproduzione sociale, le discipline umanistiche ne subiscono per contraccolpo una sorta di umiliante perdita d’identità e quindi di disarticolazione e di perdita di senso. Il colpo finale è stato loro assestato dal sistema messo a punto una quindicina di anni al fine di valutare il “rendimento” produttivo degli studiosi impegnati nell’Università. Sistema fino a tempi recentissimi gestito nella maniera più pedestre da un’apposita agenzia, l’Anvur, emanazione del Ministero, la quale designa l’attività e le pubblicazioni dei suddetti studiosi con il termine di “prodotti”, un termine che esprime appropriatamente l’ideologia produttivistico-quantitativa che domina tutta l’attività dell’Agenzia in questione.

A cominciare dai criteri da essa prescritti per l’accesso degli aspiranti docenti alla prova per l’Abilitazione scientifica nazionale. I quali criteri consistono, come si sa, in un certo numero obbligatorio di “prodotti”, rigidamente classificati per tipologia (monografia, articolo, articolo su una rivista certificata di primo o di secondo livello) nonché di attività tra le quali svetta la partecipazione a qualche convegno, naturalmente meglio se internazionale. Insomma un puntiglioso e inflessibile sistema di norme che esclude programmaticamente qualunque effettivo giudizio sull’originalità, sul carattere innovativo, insomma sull’intrinseco rilievo culturale (se è ancora permesso usare una simile categoria) che un candidato e la sua produzione possono avere. Quindi in maniera del tutto indipendente dalla effettiva qualità di quanto egli ha scritto ovvero dall’eco che il suo testo può aver avuto nell’ambito degli studi.  Inutile dire che criteri più o meno analoghi – improntati a una prevalente misura quantitativa e formalistica –   l’Anvur ha stabilito finora (si annunciano infatti alcune modifiche) anche per valutare l’attività dei docenti che già insegnano: valutazione da cui dipende l’entità dei finanziamenti erogati dal centro ai loro rispettivi Atenei.

Ebbene,  l’effetto di questo insieme di norme sulle discipline cosiddette umanistiche è stato si può ben dire devastante: una fuga dalle monografie di ampio respiro in quanto apportatrici  di uno scarso punteggio rispetto ai semplici articoli anche di poche pagine; un’insensata moltiplicazione di tali articoli  pur di far numero e naturalmente  un loro deciso scadimento qualitativo; infine, per concludere, l’invenzione  comunque di un argomento  quale che sia su cui scrivere qualcosa anche se non si ha in  realtà nulla da dire; una corsa patetica a sollecitare  o inventare una partecipazione a seminari e convegni internazionali quali che siano e dovunque siano. Conclusione: il conferimento pressoché a chiunque dell’Abilitazione nazionale con relativa proliferazione di incapaci e immeritevoli postulanti l’attribuzione di un posto.

Di tutto questo parlano – naturalmente in modo assai più dettagliato e convincente di quanto io abbia fin qui fatto – gli autori dei contributi che il lettore troverà nelle pagine di questo libro. Contributi che pur nella loro ovvia diversità indicano tutti un unico punto d’arrivo inquietante del processo in corso nel nostro sistema d’istruzione, che è poi il medesimo al quale sembra avviata l’intera nostra società.

Mettere al bando il sapere umanistico – come si sta facendo da anni nelle nostre università per privilegiare il sapere fondato sulle scienze naturali – significa mettere al bando interi territori e dimensioni dello spirito e della conoscenza umani. Lo ha detto benissimo Isaiah Berlin: significa squalificare «lo specifico e l’unico di contro all’iterativo e all’universale, il concreto di fronte all’astratto, il movimento perpetuo di contro alla quiete, la qualità di contro alla quantità, ciò che è culturalmente condizionato di contro ai principi atemporali, la lotta mentale e l’autotrasformazione come una condizione permanente dell’uomo, di contro alla possibilità (e desiderabilità della pace), dell’ordine, di un’armonia finale e delle soddisfazioni di tutti i desideri umani razionali (…)».

Significa squalificare non lo spirito critico, che certamente può trovare terreno fertile anche in una formazione scientifica, bensì la capacità di organizzare e strutturare tale spirito collegando ambiti diversi e tra loro anche molto lontani, la capacità di portare il nostro sguardo verso orizzonti che si affacciano sui più inaccessibili misteri dell’umano.

Fonte: Ernesto Galli della Loggia** | Lisander.com

**Università di Perugia

*Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’introduzione al volume Università addio!, in uscita da Rubbettino.

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