Gran parte degli interventi al testo introduttivo di Lorenzo Ornaghi – che condividendolo ho apprezzato molto – mi sembra ispirata da una legittima, diffusa e malcelata nostalgia (per altro pure mia) per l’università di quando avevamo iniziato la nostra carriera e nella quale si poteva fare contemporaneamente ricerca, concorsi, lezione e anche il direttore di istituto o di dipartimenti (ma allora ne esistevano pochi), il preside e il rettore, rimanendo studiosi. Certamente c’erano dei colleghi che ci facevano patire e che trasformavano i rari “consigli” in sostanziali perdite di tempo rispetto a quella che pensavamo fosse la missione della “nostra” Università.
Forse eccessivamente occupati dai nostri studi ci siamo resi conto troppo tardi che i tempi erano radicalmente cambiati, che il cosiddetto “pallino” non era più nelle nostre mani e che per un insieme di motivi che vanno dalla naturale metamorfosi di un’istituzione nel suo tentativo di adeguarsi ai tempi e alle loro esigenze (la famigerata “missione dell’università”), alla burocratizzazione della vita sociale e quindi anche universitaria e al prevalere dei colleghi vocati alla “politica universitaria”, l’istituzione oggetto del nostro sogno giovanile – che nella sua concezione tipico ideale era «un posto quasi perfetto se non fosse stato per la presenza dei colleghi, degli studenti e del personale amministrativo» – si stava trasformando in un qualcosa che non avevamo previsto e che comunque non ci piaceva. E nella quale a noi semplici professori non restava che prendere atto delle decisioni dei Consigli di amministrazione e dei senati accademici, di provvedimenti di urgenza e di infinite quisquilie, senza avere la possibilità di discutere d’altro che non fosse della allocazione della “risorse di personale” (sulla quale, in genere, si scatenavano malanimi dovuti al mancato riconoscimento dell’importanza universale della disciplina che insegnavamo).
Molti di noi sono stati salvati dalla pensione. Ma ciò che preoccupa è sia la situazione di quanti sono rimasti, sia dell’Istituzione e della sua funzione.
Se ci si dovesse chiedere quale sia stata la nostra partecipazione alla configurazione del clima culturale e politico che ha prodotto una serie di riforme non certamente esaltanti che in troppi casi hanno acuito e non risolto i problemi, e se facessimo un esame di coscienza sul nostro impegno a gestirne le applicazioni: ovvero le modalità con le quali quelle sovente sgangherate riforme sono state applicate e tradotte negli statuti dei nostri atenei, forse un mea culpa sarebbe se non necessario certamente opportuno.
L’università è cambiata perché sono cambiati i tempi, le aspettative di chi la frequenta come docente e come studente, perché la politica e i sindacati vi hanno esteso la loro influenza, ma anche perché il ceto dei professori universitari, persa la “vocazione” che l’aveva sorretta negli ultimi due secoli e divisa da una ostinata contrapposizione ideologica, non ha avuto né la forza, né il coraggio di opporsi ad una deriva populistica e demagogica che concretamente si è espressa in una devastante ed inconcludente retorica che esacerba gli animi anziché spingerli verso obiettivi “alti”. In breve, dal Sessantotto non ci siamo mai rimessi. E oggi, come allora, in molti casi nei confronti delle richieste “politiche” degli studenti, ci si è mostrati tanto accondiscendenti da rasentare la vigliaccheria. Ovviamente, chi per decenni ha insegnato Filosofia politica è professionalmente portato a non meravigliarsi di nulla, ma il rifugiarsi nella propria ed autonoma sfera di valutazione costituisce una ben magra soddisfazione.
Anche noi, quindi, abbiamo responsabilità che invano cerchiamo di eludere attribuendo la colpa del misfatto ai politici. A questo proposito mi tornano in mente le parole con le quali un più anziano e illustre collega che con la politica e coi sindacati aveva avuto dimestichezza gelò le mie illusioni di giovane ordinario liberale con le seguenti parole: «Vedi, caro Cubeddu, l’università è uno di quei pochi posti nei quali senza l’intervento della politica le cose andrebbero anche peggio».
Ma sono convinto che comunque non sarebbe servito a nulla. L’evoluzione dell’istituzione universitaria nella direzione della massificazione e della burocratizzazione è parte costituente di un processo più generale che investe ogni sfera della vita e dell’attività umana e, per quanto lo si possa deprecare, fa parte di quell’altra contingenza nella quale non è possibile prevedere se le idee buone si diffonderanno. Quindi, e certamente, avemmo potuto impegnarci di più, fare pressioni sui politici conosciuti (e talora in parte anche colleghi), essere più attivi sui media, ma (anche per piccola esperienza personale ai tempi della “riforma Gelmini”) penso che sarebbe servito a poco. Troppe forze, politiche, sindacali, imprenditoriali, etc. pressavano per una trasformazione che allargasse (anche senza adeguate risorse) la quantità e poco si curasse della qualità.
Anche perché essa avrebbe dovuto essere garantita dalle nuove Autorità di valutazione e di controllo (ANVUR, etc.) e, soprattutto, da una pioggia di finanziamenti che avrebbero dovuto indirizzare la ricerca nella direzione degli standard internazionali auspicati dai politici nazionali e comunitari e agevolata da quell’ “autonomia” degli atenei che avrebbe dovuto generare una loro benefica e reciprocamente vantaggiosa competizione ma che invece si è risolta nella produzione di “eccellenze”. Ora, come ha mostrato l’informato intervento di Paolo Miccoli e Luca Boscolo, che sia difficile “valutare” i docenti, le ricerche e i dipartimenti è fuori di dubbio, e tuttavia, se si desiderano soldi pubblici, è semplicemente necessario. Ciò detto, resta il dubbio che questa smania valutativa si sia, forse inintenzionalmente, risolta non soltanto in un’ulteriore dose di burocratizzazione della ricerca e della didattica, ma anche in una forma di controllo della ricerca che è cosa diversa dalla giusta sanzione comminata ai tanti fannulloni che pare ancora si annidano nei dipartimenti. Siamo proprio sicuri che le modifiche e le integrazioni che i “revisori” possono chiedere, ad esempio a chi propone la pubblicazione di un suo saggio su una rivista di fascia A, non possano essere anche intese come una richiesta di allineamento agli standard o ai paradigmi di ricerca mainstream?
L’ “autonomia temperata” si è così risolta in una burocratizzazione localistica e la competizione si sta mostrando soltanto ora. Purtroppo non nella desiderata versione “virtuosa” tra atenei, ma nell’imprevista versione di una contrapposizione tra atenei statali e università “telematiche” che realisticamente (ma con qualità crescente e, come ha testimoniato Luigi Marco Bassani, con un’encomiabile attenzione alla didattica) danno una risposta alla domanda di studi universitari e di formazione professionale (e, se si vuole, di pezzi di carta dotati di valore legale) da parte di “utenti” che gli atenei statali non sono riusciti a intercettare.
Insomma, uno stato di crisi endemica e non contingente che troppo spesso si cerca di nascondere imputandola, ca va sans dire, al neo-liberismo e alla concorrenza (come al solito “sleale”) delle università telematiche.
L’unica cosa nella quale la ricerca universitaria si è adeguata ai tempi è stata la tendenza all’internazionalizzazione. Ma non tanto perché sia significativamente aumentato il numero di docenti prestigiosi provenienti dall’estero (gli stipendi, le incombenze burocratiche e i carichi amministrativi non consentono di fare miracoli!), ma perché è aumentato il numero di studenti Erasmus distribuiti un po’ dappertutto nelle università europee. Il lato negativo dell’internazionalizzazione è stato così l’incremento apparentemente incontrollabile e inintenzionale di griglie di dizioni tematiche e disciplinari, perlomeno nell’ambito umanistico, ispirate alla cultura liberal internazionalmente prevalente e politicamente corretta, nelle quali provare ad inserirsi per avere quei finanziamenti agognabili non soltanto per poter fare ricerca, ma soprattutto per poter avere una qualche soddisfazione personale (la vanità, come noto, è il male endemico degli intellettuali in generale e dei professori universitari in particolare) e per ripagare i mesi e le fatiche spese per fare complicatissime domande per compilare le quali esiste ormai una “professionalità”. Ma che molto spesso sono affidate ai giovani colleghi i quali, una volta “immessi in ruolo”, anziché continuare negli studi si ritrovano, oltre a dover tenere almeno due corsi, a istruire quelle domande di finanziamento, a rappresentare il proprio dipartimento nella ‘terza missione’ e a gestire la parte burocratica dei corsi di laurea e dell’Erasmus. Senza aver più tempo ed energie per proseguire le proprie ricerche e la propria preparazione didattica.
Il risultato è stato, ed è sotto gli occhi di tutti, che per fare ricerca in un settore fondamentale per la configurazione di quella cultura e mentalità condivisa che è alla base delle scelte individuali, sociali, morali, economiche, giuridiche e politiche, bisogna allinearsi ai criteri “premiali” dei tanti bandi. La cultura umanistica si è ridotta a “prodotti”. In altre parole, che se un progetto di ricerca non viene finanziato, chi lo ha proposto finirà per non avere “voce” sia perché non disporrà dei mezzi economici per divulgarne i risultati e per promuovere la carriera dei giovani collaboratori e dei ricercatori impegnati, sia perché il suo credito o prestigio presso i colleghi diminuirà e pochi vorranno associarsi a chi non fa ricerche “premiali”: ovvero alla moda.
Un esito devastante da molti punti di vista, ma soprattutto da quello della libertà della ricerca che avrebbe dovuto essere l’emblema e l’assillo dell’istituzione universitaria.
Si potrebbe così dire che in molti casi e per molti ambiti culturali e di ricerca l’università stia tornando ad essere quel che era stata per secoli: ovvero un malinconico, codino e tutto sommato inutile luogo di produzione di titoli legali, di insegnamento e di ricerche ispirate, se non imposte, dalle mode dei tempi, dalla cultura dominante e dai vari potentati, allora ecclesiastici e ora politici o social. Al che bisogna aggiungere che un numero sempre crescente di imprese e di istituzioni culturali, forse perché stanche dei compromessi, dei condizionamenti demagogici e delle complicate lentezze burocratiche, la ricerca, quella originale e veramente (o socialmente) utile, stanno iniziando a farsela a casa propria. Attraverso centri di ricerca appositi che solo marginalmente si intersecano con quelli universitari. Il lato negativo di questa tendenza è però rappresentato dal fatto che quelle imprese, per via di una sorta di miopia culturale e politica, sono poco o nulla interessate alla cultura umanistica e, soprattutto, a quelle tradizioni culturali “nazionali” che, per lo meno fino a pochi decenni fa, forgiavano il carattere della società civile e in qualche misura le aspettative individuali e sociali. Col risultato che tutto questo, ora, è stato delegato ai famigerati social (entità alle quali molto spesso si attribuisce la responsabilità di quel che non piace e non si riesce a spiegare secondo i canoni del passato).
Per sfuggire a questa omogeneizzazione, che si mostra in quell’imposizione di “crediti” che tutti gli atenei pubblici e privati devono rispettare per poter rilasciare quei titoli legali ai quali ambiscono gli utenti, che danno loro credibilità e che si è il più delle volte risolta in una “fantasiosissima” creazione di dizioni disciplinari talora ridicole e altre incomprensibili, e in una “democratizzazione” e “responsabilizzazione” che al momento dell’iscrizione all’esame chiede agli studenti di esprimere un parere su un corso che magari non hanno frequentato, ma che influisce sul rating del docente, non serve tanto impegnarsi in una perdente battaglia all’interno dell’Università, ma fare cultura fuori di essa. Come avveniva agli esordi della modernità allorché tanti dei suoi principali e prestigiosi esponenti non erano “professori”.
La speranza che nella medesima istituzione si possa fare ricerca, cultura, didattica e contemporaneamente gestione degli affari correnti è l’illusione fatale che ha portato alla situazione attuale e dalla quale occorre uscire riducendo non il carico burocratico dei docenti (ovvero affidandolo ad altri che diverrebbero presto i veri padroni degli atenei) ma la stessa burocratizzazione dei rapporti tra colleghi, studenti e personale amministrativo. E per far questo, esperita fino in fondo la fase della burocratizzazione, delle griglie e dei controlli, non basta neanche tornare all’abolizione del valore legale del titolo di studio, occorre creare luoghi di produzione della cultura che siano in competizione tra di loro, indipendenti dalla politica e capaci di infrangere il monopolio delle idee dominanti. Resta soltanto da chiedersi chi mai, oggi, potrebbe investire in un progetto simile.
Fonti: Fonte: Raimondo Cubeddu* | Lisander.com
*già ordinario di Filosofia politica, Università di Pisa