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Piersanti Mattarella, un delitto troppo perfetto

I due sicari del presidente della Regione Siciliana, fratello dell’attuale capo dello Stato, non hanno ancora un nome. Solo i capi della cupola sono stati condannati perchè “non potevano non sapere”. La Procura di Palermo mesi fa ha riaperto le indagini e indaga su due sicari di Cosa Nostra, Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese, entrambi in carcere. Ma la mafia in questo delitto c’entra fino a un certo punto. Falcone lo aveva capito. Ricostruiamo la lunga storia delle indagini e il contesto in cui è maturato l’omicido.

L’assassino venne incontro alla macchina con quello strano modo di camminare, “ballonzolando”, dicono i testimoni. In tasca aveva un revolver calibro 38. Il volto, seminascosto dal cappuccio di un K-way azzurro, svelava due occhi impassibili, che incrociarono lo sguardo di Irma, la consorte del presidente della Regione Sicilia, una donna esile e bionda seduta sul sedile davanti. Il killer sparò sei colpi mandando in frantumi i finestrini delle due portiere, facendo il giro della macchina, davanti a moglie, figlia e suocera, sgomente dentro la 132 appena uscita dal garage di via Libertà, mentre il figlio Bernardo, all’entrata dell’autorimessa, fissava la scena impietrito. Piersanti Mattarella si accasciò sul volante, poi scivolò sulle gambe di Irma. La pistola si inceppò. Il sicario tornò verso la 127 bianca che lo attendeva, ma il complice alla guida lo rimandò indietro fornendogli un’altra calibro 38 per finire il lavoro. E così Irma incrociò il suo sguardo freddo e beffardo una seconda volta mentre assestava il colpo di grazia. Poi il sicario risalì in macchina, sempre con quell’andatura quasi giocosa, da bambino, che alle 12.50 di quella domenica del 6 gennaio 1980 di una Palermo fredda e piovigginosa aveva ingannato i passanti sulle sue vere intenzioni. Gli scatti dell’epoca della leggendaria fotografa Letizia Battaglia, che ha raccontato per immagini la Spoon River di Palermo, mostrano il fratello Sergio, futuro capo dello Stato, allora docente universitario, sceso dalla sua abitazione a pochi metri di distanza, abbracciare nella macchina il corpo agonizzante del fratello, sostenendolo in attesa dei soccorsi. Né lui né gli altri membri della famiglia hanno mai avuto giustizia. Quasi mezzo secolo dopo ancora non sappiamo il nome dell’assassino e del suo complice, tantomeno dei suoi mandanti. Qualche mese fa la Procura di Palermo ha riaperto le indagini (ne ha dato per prima notizia il quotidiano Repubblica). Ci sarebbero anche due indagati: il boss mafioso Antonino Madonia e il membro di Cosa Nostra Giuseppe Lucchese, entrambi in carcere, a quei tempi giovani sicari di Cosa Nostra, secondo alcuni pentiti con ottimi contatti con i servizi segreti. Ma la mafia in questa faccenda non è l’unico scenario.

Oggi un docufilm (Magma. Mattarella, il delitto perfetto, prodotto da 42esimo Parallelo) riapre il caso a partire dal contesto storico e politico in cui maturò il delitto, attraverso documenti inediti e testimonianze di primo piano. Soprattutto il contesto, direbbe Leonardo Sciascia, ci fa capire molte cose. E a proposito dello scrittore siciliano, fu proprio lui, l’autore de L’affaire Moro, a vergare sul Corriere della Sera un commento – breve e tagliente come una lametta – che accostava l’omicidio a quello del segretario della Dc Reina. Per Sciascia non si trattava di mafia, matrice troppo «confortevole», ma di terrorismo politico.

Per cercare di capire dobbiamo tornare alla Palermo dell’epoca, come quella che trovò l’allora giovane cronista di mafia Attilio Bolzoni. La guerra di mafia non era ancora esplosa. La città «era soffocante, una sacca infetta buttata là in mezzo al Mediterraneo. Si capiva che stava accadendo qualcosa. Stavano cambiando gli equilibri politico-criminali siciliani e anche italiani». L’Italia era lo Stato cerniera tra Est e Ovest, faceva parte del Patto Atlantico ma aveva il più grande Partito comunista d’Europa. Il Paese era lacerato dai 55 giorni del sequestro Moro, di cui Piersanti Mattarella era il pupillo. Nel 1978 aveva guidato una giunta regionale che comprendeva l’appoggio del Pci, precorrendo il compromesso storico dello statista ucciso dalle Br con Berlinguer. «È un delitto Moro in piccolo», aveva commentato il parlamentare europeo Pancrazio De Pasquale il giorno stesso del delitto.

Perché Mattarella è stato ucciso? Nella basilica di San Domenico, al cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo quasi cade la mitria mentre tuona dal pulpito di fronte al feretro del presidente della Regione, ai funerali gremiti di personalità politiche, a partire dal capo dello Stato Pertini: «Una cosa sembra emergere sicura ed è l’impossibilità che il delitto sia attribuibile a sola matrice mafiosa. Ci devono essere altre forze occulte». Peccato che la Procura la pensi diversamente e indaghi soprattutto sulla matrice mafiosa. Del resto a Palermo Cosa nostra ha il controllo del territorio: come è possibile che un criminale venuto da fuori possa mettere piede in un mandamento? Oltretutto il 44enne presidente di Palazzo d’Orléans dà fastidio agli affari della Cupola, che solo nel 1979 ha decretato 50 omicidi: impone controlli sugli appalti, segnala irregolarità, contrasta le aziende in onore di mafia, è un nemico del sindaco Ciancimino, politico di riferimento dei corleonesi.

Il primo in Procura a capire che non di sola mafia si tratta è Giovanni Falcone, quando, nel 1985, il fascicolo arriva sul suo tavolo ed effettua un’inchiesta parallela. Approfondisce le indagini (non senza difficoltà per depistaggi e insabbiamenti), sente la vedova, interroga testimoni e pentiti, tra cui Buscetta. Si convince che sono due terroristi neri ad aver compiuto quel delitto con il permesso di Cosa nostra. C’è una convergenza di interessi. Ai mafiosi quell’omicidio non dispiace, ma la matrice è nera. È in quel momento che entra in scena Valerio “Giusva” Fioravanti, terrorista nero dei Nuclei armati rivoluzionari, una delle più feroci associazioni neofasciste in circolazione. Irma Chiazzese vede la sua foto su un giornale e si dice certa di riconoscere quel viso. Lo dice a Falcone e lo confermerà al processo, ricorderà gli occhi di ghiaccio, «da cui non trapelava nessuna emozione, era come un robot». Valerio in seguito è accusato di quel delitto anche dal fratello Cristiano, anch’egli terrorista (pentito), che poi ritratta le accuse, o meglio, decide di non rispondere alla Corte d’assise di Palermo. Valerio Fioravanti ha confessato nei dettagli altri delitti, ma ha sempre negato il coinvolgimento in quello di Mattarella.

Come spiega Rosy Bindi, più volte ministro e già presidente della Commissione antimafia, gli anni di piombo sono anche quelli in cui «la Costituzione comincia a vivere» nella società italiana attraverso riforme importanti, «e una Costituzione che comincia a vivere fa paura». Da qui l’impressionante sequenza di uomini delle istituzioni vittime del terrorismo. Tutto si inserisce nella logica della Guerra fredda e nel “fattore K”, l’impedimento di far entrare i partiti della sinistra nel processo democratico italiano. Come volevano i tre martiri della democrazia Reina, Moro e Mattarella. Ed ecco dunque – in una strana eterogenesi dei fini – entrare in azione il terrorismo. Quello delle Br, di Prima Linea e delle altre formazioni rosse, alla lunga funzionali a questo disegno. E naturalmente il terrorismo nero, che a Palermo uccide Mattarella nell’interesse della mafia ma anche di poteri occulti, della massoneria, dei servizi segreti deviati e della P2 che controllava militari, politici e uomini delle istituzioni. Tutta gente intenzionata a fermare – con le cattive – quel processo democratico. Come scrivono Giovanni Grasso e Riccardo Ferrigato in un saggio edito dalla San Paolo (Sergio Mattarella, il presidente degli italiani), «a nessuno sfugge l’inquietante analogia che lega il delitto Mattarella a quello di Moro. Entrambi lavorarono per favorire l’evoluzione in senso democratico del Pci attraverso il dialogo, il confronto e l’associazione all’area di governo». Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, il presunto complice della 127, verranno processati ma saranno assolti nei tre gradi di giudizio per non aver commesso il fatto. Non potranno mai più essere riprocessati per il principio giuridico del ne bis in idem. Gli unici a essere condannati sono i membri della Cupola mafiosa, poiché non potevano non sapere. E così, quasi 50 anni dopo il delitto Mattarella, un delitto perfetto (come lo definì il capo della P2 Licio Gelli), troppo perfetto, senza colpevoli, rimane un mosaico scomposto, una domanda di giustizia senza una risposta.

Fonte: Francesco Anfossi  | FamigliaCristiana.it

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