L’editore del Corriere di Caserta dovrà risarcire 100 mila euro ai fratelli del sacerdote assassinato il 19 marzo del 1994, a 35 anni, nella sua chiesa di Casal di Principe. In 10 anni ha ottenuto dallo Stato 12 milioni di euro
La famiglia di don Peppe Diana – il parroco di Casal di Principe assassinato nella sua chiesa il 19 marzo 1994 – dopo ventun anni, ha ottenuto giustizia. Soffermatevi su queste due parole: «Ventun anni». Pronunciatele ad alta voce perché no, non basta leggerle tra sé e sé; è necessario scandirle, deve essere chiaro cosa è accaduto a don Diana, ucciso dalla camorra prima e diffamato da certa stampa locale, poi.
Era il 28 marzo 2003, quando il Corriere di Caserta, titolò a lettere cubitali in prima pagina con questo virgolettato: «Don Peppe Diana era un camorrista», e poi, come titolo di un articolo interno, un altro virgolettato: «Don Diana custodiva le armi della camorra».
La condanna
È notizia di questi giorni che il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere abbia condannato per diffamazione l’editore Libra Editrice a risarcire con 100 mila euro i fratelli di don Peppino. Sentenza che fa vivere come uno scandalo che Libra Editrice abbia ricevuto dallo Stato, negli ultimi anni, come finanziamento pubblico all’editoria, oltre 12 milioni di euro.
Ma andiamo con ordine. Dopo questi titoli, Iolanda Di Tella, la madre di don Peppe Diana, disse: «Mio figlio me lo stanno uccidendo un’altra volta».
Don Peppe Diana era stato ucciso a 35 anni, nel giorno del suo onomastico, mentre si stava preparando a celebrare la messa: un killer lo raggiunse in sagrestia e sparò 5 proiettili, uno lo colpì alla testa, uno al collo, uno alla mano e due da distanza ravvicinata al volto.
Cinque colpi di pistola, per mettere a tacere per sempre il sacerdote che aveva osato sfidare la camorra. I familiari di don Peppe denunciarono questi giornali, ma solo nel 2024 è arrivata la sentenza che ha condannato per diffamazione Libra Editrice (editore di Cronache di Caserta e Cronache di Napoli) e la giornalista Tina Palomba a risarcire con 100 mila euro i fratelli di don Peppe, Marisa ed Emilio, difesi dall’avvocato Alessandro Marrese.
La strategia di diffamazione
Iolanda Di Tella e Gennaro Diana, i loro genitori, sono morti prima che giustizia fosse fatta, ma la sentenza è storica, perché mostra in maniera inequivocabile come si metta in pratica la strategia di diffamazione di una vittima della camorra: «L’espediente – scrivono i giudici – di riportare nell’articolo le dichiarazioni rese dagli avvocati degli imputati nel processo per l’omicidio del Sacerdote appare un maldestro tentativo di camuffare la portata tendenziosa e diffamante delle frasi utilizzate dalla giornalista».
Questa è una dinamica tipica dell’uso manipolatorio della cronaca giudiziaria: prendere una qualsiasi dichiarazione, estrapolarla dal contesto e farne titolo per legittimare un’accusa arbitraria. La sentenza lo dichiara: «Il titolo in prima pagina scritto a chiari caratteri cubitali “Don Peppe Diana era un camorrista” ed i titoli in basso rilievo […] “De Falco ordinò l’omicidio del sacerdote perché custodiva l’arsenale dei Casalesi” (tale ultimo scritto neppure virgolettato), evidenziano un chiaro intento della scrivente giornalista di infangare la memoria di Don Peppino Diana».
E ancora: «La gravità dell’offesa alla memoria del loro congiunto, indicato nello sprezzante titolo in prima pagina addirittura quale appartenente alla camorra, ha costituito, essa stessa, una cassa di risonanza mediatica a livello nazionale, creando sgomento e incredulità nell’intera società civile. La sofferenza patita dai genitori e dai fratelli di don Diana appare devastante, in quanto ammazzato dal braccio armato della camorra e infangato nella memoria dall’offesa più grave, senza che egli potesse difendersi».
Il sistema estorsivo-ritorsivo
Ma come è possibile che un prete, assassinato barbaramente poco più che ragazzo, possa aver subito questi titoli? Per capirlo bisogna conoscere l’origine di quei titoli. Maurizio Clemente, che fino al 2003 è stato editore di Corriere di Caserta e Cronache di Napoli, nel 2011 viene condannato in primo grado a 8 anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per il reato di estorsione a mezzo stampa.
In pratica, secondo i giudici di primo grado, Maurizio Clemente aveva minacciato imprenditori, professionisti e politici della provincia di Caserta di pubblicare articoli diffamatori contro di loro, contro le loro attività, per indurli a stipulare contratti pubblicitari o di consulenza con società da lui controllate. Un vero e proprio «sistema estorsivo-ritorsivo»: o mi paghi o parlo male di te sui miei giornali.
Tutto però si è fermato al primo grado perché in appello il reato è finito in prescrizione. Nel frattempo, l’assetto societario dell’editrice di Cronache di Napoli e Corriere di Caserta è cambiato. La società dei fratelli Maurizio e Pasquale Clemente, l’Editoriale Corriere, che ha gestito le due testate fino all’estate del 2003, subissata da contenziosi di lavoro e cause per diffamazione, è fallita.
E nel 2009 Maurizio e Pasquale Clemente hanno patteggiato una pena a 2 anni e 6 mesi di reclusione per concorso in bancarotta fraudolenta (pena coperta da indulto). La direzione editoriale dei due giornali è passata a Ugo Clemente, nipote di Pasquale e Maurizio Clemente, gli ex editori condannati per bancarotta fraudolenta.
I contributi dello Stato
Ogni anno la cooperativa Libra Editrice riceve soldi pubblici del contributo all’editoria per le sue testate Cronache di Napoli e Cronache di Caserta. Per il 2022 – ultimo anno di cui al momento il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pubblicato i dati completi – ha ricevuto oltre 1 milione e 250 mila euro. E per il 2023 i dati parziali ci dicono che Libra Editrice ha percepito una prima rata di anticipo di € 629.978,38.
Analizzando i dati degli anni precedenti e facendo una rapida somma, si scopre che in dieci anni Libra Editrice ha ricevuto dallo Stato oltre 12 milioni di euro. Soldi pubblici al giornale erede di quello che si è reso cassa di risonanza delle peggiori diffamazioni su un prete innocente, ucciso dalla camorra proprio per il suo impegno anticamorra. E non solo una volta.
Come precisano gli stessi giudici del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, l’articolo «Don Peppe Diana era un camorrista» fu «pubblicato sulla scia di spregevoli scritti volti ad infangare la memoria di don Diana, accusandolo di essere frequentatore di prostitute, pedofilo ed, appunto, custode delle armi per conto della camorra».
La manipolazione sul «donnaiolo»
Nel 1999, durante un’udienza del processo di primo grado agli assassini di don Diana, era stata mostrata in aula una fotografia trovata durante le indagini nello studio del sacerdote, insieme a un’altra trentina di foto scattate durante le gite con i suoi ragazzi, amici, parrocchiani. In questa fotografia, con don Peppe c’erano due donne sedute su un letto, due scout, una siciliana e una calabrese. Tutti vestiti, ovviamente.
Una semplice foto-ricordo di quelle che si fanno durante le gite. Tanto che don Peppe la conservava senza farsi problemi nel suo studio. Ebbene, il giorno successivo a quell’udienza, il 23 giugno 1999, il Corriere di Caserta titola in prima pagina: «Don Diana a letto con due donne». E nell’occhiello specifica: «Rivelazione choc in aula di un carabiniere: la “prova” rinvenuta nello studio del sacerdote». Nel catenaccio si parlava di una fotografia «particolare». E ancora, nell’occhiello del titolo interno, di una foto «ambigua», entrambi gli aggettivi tra virgolette, ammiccando a una qualche immagine scabrosa.
Eppure, lo stesso carabiniere che aveva rinvenuto la fotografia, ascoltato in aula dai magistrati, aveva chiarito che non ritraeva nessuna posa sconcia e non aveva un significato particolare. Ebbene, quell’articolo allusivo del Corriere di Caserta aveva trasformato una foto totalmente ordinaria e innocua nella «prova» di quel fantomatico movente passionale che aveva iniziato sin da subito a serpeggiare tra le vie di Casal di Principe, rimbalzando per le aule di giustizia, a beneficio del depistaggio della camorra.
L’ipotesi del movente passionale venne scartata già nel 2001, nella sentenza di primo grado del processo agli assassini di don Diana dalla quale emergeva che, vista l’efferatezza e la dinamica – anche per il tipo di proiettili utilizzati, dei bossoli di fabbricazione serba in uso solo alla criminalità organizzata –, l’omicidio poteva avere solo una matrice, quella mafiosa. La famiglia di don Peppe Diana querelò il Corriere di Caserta anche per questo articolo e vinse la causa.
Ciò nonostante, le voci infamanti su don Diana «donnaiolo» stentarono a scomparire, sopravvivono nel chiacchiericcio ancora oggi, perché il fango, una volta in circolo, dura sempre più a lungo dei processi.
La strategia della diffamazione
C’è una strategia ben precisa nelle dinamiche di diffamazione, identica ovunque e da sempre: far credere che chi si oppone al potere mafioso sia di fatto mosso solo da interessi personali, che chi cade sia sempre parte del sistema, non solo dimostrando indirettamente che il potere criminale colpisce solo chi se lo merita, ma soprattutto facendo passare l’idea che vittima e carnefice siano fatti della stessa pasta.
Eloquente era il titolo in prima pagina del Corriere di Caserta del 17 gennaio 2005: «Boss playboy, De Falco re degli sciupafemmine», a corredo di un articolo in cui veniva stilata una classifica dei boss di camorra in base al loro successo con le donne, alle loro doti amatorie. Proviamo a riflettere: per il Corriere di Caserta don Diana è «a letto con due donne», Nunzio De Falco – il mandante del suo omicidio – è un «boss playboy» e «re degli sciupafemmine».
Cosa notate? La vittima e il carnefice vengono descritti entrambi come donnaioli, vengono messi in un certo senso sullo stesso piano. Un parallelo, ovviamente, denigrante per un sacerdote e pericolosissimo, perché diventa base di quell’assioma malato «si ammazzano tra di loro», «è roba loro», «sono cose che non ci toccano» che ha sempre riguardato il fenomeno mafioso. E ha sempre indotto a sottovalutarlo, a non prendere posizione per contrastarlo. L’intento diffamatorio dell’articolo «Don Diana a letto con due donne» è stato sancito, come dicevamo, dalle sentenze, ma in quegli anni le campagne diffamatorie non erano inusuali al Corriere di Caserta.
La paura della delegittimazione
La paura di essere delegittimati è una paura che accompagna chiunque decida di combattere il potere criminale e politico. Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa a Mosca nel 2006, aveva molta più paura di essere delegittimata che uccisa, perché l’omicidio interrompe il tuo racconto, ma la delegittimazione erode tutto ciò che hai scritto, lo cancella, fa perdere valore alle tue parole, quelle che hanno il potere di trasformare le cose.
Don Peppe Diana amava ripetere: «A voi le pistole, a noi la parola». Era fermamente convinto che per contrastare lo strapotere dei clan fosse necessario educare le nuove generazioni sia con la testimonianza di vita sia con la parola. Con questa condanna al giornale che lo diffamò, un altro tassello di giustizia – se giustizia si può chiamare una sentenza che arriva dopo ventun anni – si è aggiunto al lungo restauro della sua memoria per cui la famiglia Diana e gli amici di don Peppe non hanno mai smesso di battersi.
Fonte: Roberto Saviano | Corriere.it