Le fatiche che attraversa la famiglia come specchio della crisi della società contemporanea. Della quale a pagare il prezzo più alto sono soprattutto i più giovani. «Una deriva di cui tutti vediamo le conseguenze», ma sull’origine della quale in pochi si interrogano davvero. Non è il caso di Johnny Dotti, padre e marito, imprenditore sociale e pedagogista, voce spesso fuori dal coro che di sé dice: «Sono un povero battezzato, il mio Dio è trinitario, pertanto, è radicale relazione». Mentre domina «un pensiero gnostico-manicheo, di natura binaria, per cui si sta con l’uno o con l’altro», senza in realtà approfondire alcun tipo di ragione. Questa è libertà? «A volte ci sembra di essere liberi, invece non ci rendiamo conto che siamo come tonni nella tonnara, condotti dalla parte dove il sistema vuole condurci».
Oggi c’è un’emergenza famiglia e, se sì, in che cosa consiste?
A essere in crisi è il senso di comunità in Occidente. La crisi della famiglia ne è il riflesso principale, essendo la prima delle comunità, quella dove impariamo a vivere con gli altri. Ma la crisi riguarda tutti i tipi di comunità: viviamo, infatti, in una società dove c’è’ sempre meno spazio per le relazioni tra persone, una società fatta quasi esclusivamente di individui “ab-soluti”, sciolti da ogni legame, che devono comunque essere in grado di svolgere autonomamente determinate funzioni, che si tratti di acquistare un bene online o che si tratti di conseguire un diploma. Mentre l’uomo è comunità, non è solo “io”, è tre pronomi singolari e tre pronomi plurali insieme: è “tu” ed è “noi”. Se ce lo dimentichiamo, da questa deriva scaturiscono tutte le conseguenze negative possibili, le reazioni sbagliate, comprese certe forme di estremismi e fondamentalismi.
Un rischio al quale i più esposti sono soprattutto i più giovani, i più fragili.
In questo modello di società, in cui nemmeno ci rendiamo più conto che l’idea astratta di libertà che la sottende produce tanto dolore e disperazione, l’educazione non è nemmeno prevista. Si può parlare di apprendimento, di forme di razionalizzazione dell’intelligenza, di formazione, di istruzione al massimo, ma non di educazione. Educazione significa custodire il mistero di un figlio. Parlo di una relazione in cui il padre e la madre non sono semplicemente i genitori, ma le figure fondamentali di legami, appunto, comunitari. In questo scenario, l’unica speranza sono quelle persone, siano essi padri, madri, insegnanti, imprenditori, che, invece, fanno dell’educazione un principio vocativo della loro vita. Ed è una scelta coraggiosa, che spesso richiede l’attraversamento del deserto, la solitudine. Senza fede, non la reggi.
Perché?
Qui non intendo la fede innanzitutto come sistema di credenze o dogmi, bensì nel suo aspetto più antropologico, di senso: senza credere in qualcosa, infatti, è impossibile vivere e dunque è impossibile anche educare. E così è in una società che mette al centro dei suoi interessi il mero funzionamento, non più la ricerca del senso! Ma quale famiglia ha il suo nucleo vitale nel funzionamento? Quale famiglia “funziona”? Nessuna. Io e mia moglie siamo un “disastro” ancora oggi, dopo quasi quarant’anni di matrimonio, eppure il nostro legame ha senso, è carico di senso… altrimenti cosa dovremmo fare? Buttare via tutto? Il paradosso è che oggi ti direbbero di sì, di buttare via tutto e trovare qualcun altro o qualcun’altra.
Nella società dell’informazione, pervasa dal digitale, è più difficile costruire legami buoni?
Da questo punto di vista, viviamo in un contesto molto difficile, sotto la spinta costante a ridurre l’uomo a mero intelletto, mentre la persona è corpo e spirito. Pensiamo a certi eccessi nell’utilizzo dello smartphone oppure al dibattito sull’intelligenza artificiale… anche la tecnologia può diventare una forma di schiavitù, mentre il mio problema è essere libero da essa, emancipato dallo strumento. E la libertà costa. Questo è un punto educativo fondamentale. La questione della famiglia, della comunità, è strettamente legata alla capacità di creare e saper custodire forme relazionali che vedano al centro l’interezza della persona, i suoi sentimenti, la passione, la fede, la fatica, il sacrificio, il desiderio, le esperienze concrete. Del resto, non ci si salva perché si è intelligenti, non ci si realizza o si impara a gustare la realtà perché si è più intelligenti. Le cose fondamentali della vita non dipendono dall’intelligenza.
In questo contesto, luoghi tradizionalmente protagonisti della sfida educativa al fianco della famiglia, come oratori, realtà associative e scuole, devono cambiare o restare fedeli a sé stessi?
Per custodire la vita, devono sapersi rigenerare mantenendo viva la propensione a far accedere all’esperienza originaria, perché altrimenti rischiano, in quanto istituzioni, di irrigidirsi; oppure di scivolare verso l’ideologia. E, attenzione, che quella religiosa è la più pericolosa, più di qualsiasi altra ideologia politica o socio-culturale. Io non sono contrario alle istituzioni, sia chiaro, ma sono sacre se sanno sacrificarsi, se sono aperte cioè al sacrificio. Il punto è se chi le anima è disponibile a riallargare lo spazio esperienziale, a risignificarlo, a far partecipare l’altro al senso che contribuiscono a costruire. Poi le forme possono essere tante e sono sempre provvisorie. Perché negli oratori c’erano i campi sportivi? Perché il teatro? Le esigenze a cui rispondevano sono attuali oggi? Come? Certo, l’adulto che accetta questa sfida rischia, sa di mettersi in discussione. E non può farlo se non insieme ad altri. Ecco che si ritorna al tema della comunità.
Fonte: Matteo Rigamonti | Clonline.org