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CROLLO NASCITE – “PIÙ MIGRANTI”- Blangiardo: no, anche loro in Italia fanno meno figli, il rimedio è un altro

Il Papa: “contro il calo demografico aprire ai migranti”. Ma è una ricetta sbagliata, lo dicono i numeri. Lo Stato deve sostenere le famiglie

Al calo demografico si sopperisca aprendo le porte agli stranieri. La proposta che papa Francesco ha fatto sua, intervistato da Fazio a Che tempo che fa, in realtà non funziona. Quello che va fatto, spiega Gian Carlo Blangiardo, già presidente dell’Istat, docente emerito di demografia all’Università di Milano Bicocca, è rilanciare la natalità. Ne va del nostro sistema produttivo e anche della considerazione internazionale del nostro Paese. Un tema che va affrontato dalle istituzioni e dal mondo imprenditoriale, ma che va preso in considerazione anche a livello UE. Anzi, l’Europa dovrebbe considerare una sorta di Green Deal anche per la popolazione.

Il Papa suggerisce all’Italia di aprire ai migranti per contrastare il calo demografico: qual è l’incidenza degli stranieri e quale potrebbe essere da questo punto di vista?

L’anno scorso in Italia sono nati 380mila bambini, quest’anno alla fine saranno 370mila. La dimensione della popolazione nel medio e lungo periodo si va riducendo in maniera importante. Per questo si fa avanti la proposta di compensare la caduta dei nati attraverso l’aggiunta di flussi che provengono dall’esterno. C’è un vantaggio: quelli che arrivano, tutto sommato, sono persone abbastanza formate o comunque mediamente giovani, in qualche modo funzionali al sistema economico. Se uno dei problemi è il rischio che ci sia meno forza lavoro in futuro, meno potenziale produttivo, quindi meno capacità anche in termini di welfare, l’ingresso degli immigrati, in quanto soggetti attivi, in qualche modo compensa la carenza demografica nell’immediato: pareggia i numeri, anche se lo fa senza che ci sia un recupero delle nascite.

Noi, invece, abbiamo bisogno proprio di rilanciare la natalità?

Il neonato venuto al mondo in Italia è una persona che, quando sarà il momento, garantirà un periodo produttivo lungo, più o meno di una quarantina d’anni, mentre l’immigrato, che arriva mediamente a 30 anni, assicurerà un’attività produttiva più ridotta nel tempo. Il vantaggio dell’immigrazione è che gli stranieri lavorano da subito, ma per un periodo inferiore: i neonati, invece, inizieranno a lavorare dopo, ma lo faranno più a lungo.

Gli stranieri, anche dal punto di vista delle nascite, quanto incidono sul numero dei nuovi nati?

Nel 2023, i nati stranieri erano 50mila (compresi nel dato complessivo di 380mila), nel 2012 erano 80mila. È una componente importante, che rappresenta una quota rilevante. Per comprendere il loro apporto bisogna tenere conto anche di un altro aspetto: ci sono bambini con un solo genitore straniero e che, in virtù dell’altro, hanno la cittadinanza italiana. Non vengono registrati come nascite straniere, anche se si tratta di una componente che incide comunque. Il sostegno degli stranieri dal punto di vista demografico, tuttavia, è sempre più contenuto.

Per quale motivo?

La popolazione straniera si rende conto in fretta delle difficoltà di essere genitori in Italia. E allora i progetti di fecondità vengono ridimensionati, riallineando così la natalità al livello delle famiglie italiane. Nel 2003-2004 il tasso di natalità, i nati ogni mille abitanti, era 23-24 per gli stranieri e intorno all’8 per gli italiani. Oggi in Italia è più o meno a 6, mentre per gli stranieri è diventato 9. Teniamo presente che nei mille abitanti italiani c’è una componente anziana che ovviamente non è riproduttiva, mentre essendo la popolazione straniera più giovane, il tasso di natalità è naturalmente più alto anche per motivi di struttura della popolazione. La presenza degli stranieri, comunque, non è risolutiva.

Questo ragionamento dimostra che il problema è la mancanza di un contesto che favorisca la natalità?

Il calo demografico lo abbiamo sotto gli occhi. Se dobbiamo fare una diagnosi, bisogna elencare una serie di fattori: il costo dei figli, la difficoltà nella conciliazione famiglia-lavoro e nella cura; in più c’è un clima culturale che non è così gratificante. Si tratta di una serie di fattori che in qualche modo spiegano come mai c’è “il malato”. Il passaggio successivo, però, è quello della terapia, della cura.

La diagnosi è stata fatta da tempo. Ora si sta agendo per risolvere il problema?

Rispetto a quello che si faceva 20-30 anni fa, quando la situazione era già critica o cominciava chiaramente a porsi in questi termini e nessuno se ne preoccupava, ora almeno si riscontra una grossa sensibilità. Ci sono dei tentativi: si è provato con l’assegno, con l’esenzione dei genitori dal lavoro quando il bambino ne ha bisogno, con l’interscambio maschio-femmina. Alcune aziende si stanno muovendo rispetto al welfare aziendale: c’è un movimento in atto, anche se non sufficiente ad arrestare il crollo. Lo attenua, ma non al punto da segnare una inversione di tendenza.

Si può invertire il trend?

Stiamo andando controvento. Siamo in una situazione in cui, se anche dovesse aumentare la propensione individuale a fare figli, siccome le potenziali mamme, le coppie se vogliamo, progressivamente diminuiranno come conseguenza del calo demografico degli anni passati, il numero totale di figli che vengono generati non è detto che sia più alto rispetto a prima.

C’è bisogno di una cura più shock, di più coraggio nelle iniziative dal punto di vista politico?

C’è bisogno di una “chiamata alle armi” generalizzata: il regista politico va benissimo, le amministrazioni locali devono muoversi, il sistema del privato sociale, che già in qualche modo lavora in questa direzione, deve fare di più, ma deve essere più coinvolto anche il mondo imprenditoriale: deve capire che conservare una popolazione di dimensioni ragionevoli è un interesse anche di natura economica e quindi occorre dare una mano ai propri dipendenti creando un welfare che sia vicino alle famiglie.

Da cosa bisogna partire?

Il punto centrale, piaccia o non piaccia, è la famiglia. O si dà una mano alla famiglia perché possa continuare a fare il suo mestiere, altrimenti rischiamo.

Il CNEL ha reso noto che a causa del calo demografico negli ultimi 10 anni son venuto meno 2,5 milioni di occupati. Una cifra che fa impressione e che, vista la situazione, è destinata a peggiorare. Qual è la prospettiva?

Secondo i dati ISTAT, se andiamo avanti di 30 anni, la popolazione in età lavorativa (20-65 anni) scenderà di 9 milioni di persone. Perdere 9 milioni di potenziali produttori, per il sistema imprenditoriale, vuol dire che a un certo punto mancherà la forza lavoro. Sempre secondo le previsioni ISTAT, l’Italia fra 40 anni diventerà un Paese intorno ai 45 milioni di abitanti, mentre oggi ne abbiamo leggermente meno di 60. Anche quest’anno avremo 250mila morti in più rispetto alle nascite.

Cambierebbe anche la considerazione dell’Italia come Paese?

Sì. Il numero totale di abitanti influisce sulla potenzialità economica, sul ruolo politico nello scenario internazionale. Dico sempre che il Principato di Monaco è un Paese ricco, ma non è un grande Paese, perché non ha popolazione. L’Italia magari è meno ricca di Monaco, però è un grande Paese, ha un ruolo nelle strategie internazionali. Questo dipende anche dalla dimensione demografica.

La sensibilità su questo tema sta crescendo, ma ci stiamo rendendo conto che deve diventare la nostra priorità?

Non c’è la consapevolezza né da noi né in Europa. Quello che abbiamo detto dell’Italia vale più o meno per tutto il continente. Si parla di togliere gli investimenti green dal Patto di stabilità; io inserirei tra gli obiettivi anche quello di mantenere green la popolazione. Se nel paesino di montagna spariscono gli abitanti, il bosco avanza e si mangia tutto. L’uomo non è solo devastatore, è intelligente e capace di curare il proprio ambiente. In 360 comuni italiani nel 2023 non è nato neanche un bambino. Saranno piccoli comuni, però lì, intanto, il bosco avanza.

Fonte: Paolo Rossetti Int. Gian Carlo Blangiardo | IlSussidiario.net

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