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Adolescenti difficili, ecco cosa raccontano a chi si mette accanto a loro

Una counselor racconta la sua esperienza di ascolto dei ragazzi problematici in una scuola superiore dell’hinterland milanese. Tante le esperienze negative vissute a casa, a scuola, con i coetane.

Ansia da ascolto, solitudine, rapporti problematici con le famiglie di origine ma anche con i coetanei, insoddisfazione verso la scuola. Sono i problemi emersi nel corso di un progetto che ho condotto recentemente, in qualità di counselor, presso una scuola superiore di Cinisello Balsamo, alle porte di Milano. Il progetto, chiamato “Restart Yourself”, organizzato da Telefono Donna in collaborazione con la Dirigenza scolastica dell’Istituto e finanziato con i fondi del Pnrr, aveva lo scopo di offrire supporto agli studenti con problematiche scolastiche, personali e famigliari, attraverso tre incontri ciascuno con uno dei professionisti della relazione di aiuto del team di Telefono Donna. Ho così avuto l’occasione di incontrare ragazzi dai quattordici ai diciassette anni e di parlare con loro. Tutti avevano almeno un debito formativo. Quindi il primo argomento che abbiamo affrontato insieme è stato quello della scuola.

“Quasi tutta la classe ha il debito in matematica”, mi ha detto Ilaria, quindicenne. “Il professore non spiega bene. Quando qualche compagno dice di non avere capito, il professore rispiega nello stesso identico modo e quindi non se ne esce e poi… è noioso!”. La ragazza era davvero dispiaciuta e nello stesso tempo arrabbiata. Alcuni dei suoi compagni di classe, che avevo in carico, mi hanno confermato la situazione e molti di loro hanno specificato che l’insegnante incaricato dalla scuola per il recupero del debito era invece in grado di chiarire i punti oscuri del programma e di fugare i loro dubbi. Sono rimasta colpita soprattutto quando mi hanno espresso che questo professore ci teneva che capissero. Questo è un punto cruciale: l’apprendimento è facilitato da un atteggiamento empatico dell’insegnante verso l’allievo. Le emozioni positive di condivisione predispongono al meglio all’incremento delle informazioni e dei concetti. Ciò si rafforza quando non ci si sente costantemente giudicati. Ora, è vero che gli insegnanti di materia sono costretti al giudizio. Peraltro, un giudizio equilibrato è di aiuto allo stesso studente per capire a che punto è. D’altra parte, si può insegnare con una disposizione accogliente e non giudicante, attivando l’intelligenza emotiva, affinché gli studenti si sentano protagonisti del processo di apprendimento e diano il meglio di loro stessi.

Del resto, gli stessi incontri con me, nel ruolo di counselor, hanno dato buoni risultati perché la prima cosa che dicevo ai ragazzi era: “Sono qui per aiutarti e non per giudicarti”. Inoltre, si sentivano rassicurati anche perché precisavo che tutto quello che mi avrebbero detto non sarebbe uscito fuori dalle mura dell’aula, in quanto coperto dal segreto professionale. Ad ogni modo, sono convinta che l’atteggiamento empatico, l’attitudine all’ascolto, il sorriso, insieme all’assenza di giudizio e alla battuta allegra al momento opportuno, siano i migliori strumenti comunicativi in tutte le forme della relazione di aiuto e nel lavoro delle varie figure che si prendono cura dell’altro, a partire dagli insegnanti.

È poi emerso che un’altra nota dolente è quella delle relazioni famigliari. Josè, quattordici anni, vive con la madre e il compagno della madre perché i suoi genitori sono separati. “Quando torno da scuola – mi ha confidato – vorrei tanto trovare la mamma ad accogliermi e mangiare con lei perché le sono molto legato. Invece pranzo da solo perché la mamma lavora. Mangiamo insieme la sera, ma c’è anche il suo compagno e poi parliamo poco perché lei è molto stanca e la tv è accesa”. Ivan, sedici anni, mi dice: “I miei genitori lavorano e io sono a casa da solo nel pomeriggio. Quando rientrano alla sera, la mamma si mette a cucinare e a riordinare e il papà è così stanco che si addormenta sul divano.” Jennifer, diciassette anni, ricorda che da bambina, nelle belle giornate, andava con il papà, che è sempre stato un grande sportivo, a fare lunghi giri in bicicletta, ma ora lui si allena per conto proprio e non la coinvolge più. Certo, sta anche ai ragazzi chiedere di essere coinvolti in attività piacevoli con i genitori, ma è senza dubbio dagli stessi genitori che dovrebbe partire l’iniziativa.

Il senso di solitudine di questi adolescenti è veramente forte. Il dialogo con i genitori è assente in moltissimi casi. Perfino lo scontro generazionale, di grande importanza quando è sano, non c’è o è sbiadito per la mancanza di comunicazione e di condivisione. Non c’è tempo per stare insieme in modo autentico. Ciascuno vive una vita parallela e l’affetto è diluito dalla stanchezza per il lavoro, dalle incombenze della quotidianità e dalla distrazione dei social media. In molte famiglie non si comunica perché ognuno ha in mano il suo smartphone, chiuso nel suo mondo, senza accorgersi che vicino a sé ci sono gli altri membri della famiglia, ci sono i figli.

Questo distacco si accompagna sempre più spesso alla mancanza di contatto fisico. Quanti sono i genitori che abbracciano ancora i figli, anche da adolescenti? Basterebbe anche un braccio attorno alle spalle per rinsaldare il legame tra figli e genitori. Invece prevalgono, nei ragazzi, la solitudine e lo smarrimento. Sopperiscono cercando nei coetanei la famiglia che non c’è, ma è chiaro che non può essere la stessa cosa. Anche in tal caso, le testimonianze parlano chiaro. “Tutti i pomeriggi mi trovo con le mie amiche” – dice Giulia, diciassette anni. “Siamo in tre e ci vediamo sempre, come fossimo sorelle. Parliamo del più e del meno, scherziamo, ridiamo. Mi piace stare con le mie amiche; però, dopo un po’ di tempo, mi estranio dai discorsi, che sono sempre gli stessi e non vedo l’ora di tornare a casa”. Lory, sedici anni: “Tre volte alla settimana vado in palestra a fare pesi con un mio amico. Ci alleniamo insieme per farci i muscoli, diventare sempre più forti e speriamo così di piacere alle ragazze, ma al di fuori dalla palestra non ci sentiamo e non ci vediamo mai”.

Lo spaccato di vita di questi giovani è evidente: si sentono soli anche quando sono in compagnia. Per quanto ci possano essere affinità, la comunicazione non è soddisfacente perché resta a un livello superficiale. Inoltre, la maggior parte delle aggregazioni sociali sono finalizzate. Allora, c’è l’amico della palestra, quello del tennis, quello del corso di inglese e così via. Dove sono finite le aggregazioni sociali naturali e autentiche?

Ad aggravare il fenomeno della solitudine c’è una sempre più diffusa forma di dipendenza dal digitale. I ragazzi – e spesso anche i loro genitori – fanno parte di community virtuali e chattano con individui che non hanno mai incontrato di persona. La comunicazione avviene con le dita su uno schermo luminoso di pochi centimetri quadrati, la testa china, la schiena incurvata, nella più totale noncuranza del mondo circostante e degli esseri che lo abitano. Si sosta in una dimensione artificiale che avvelena le menti, distanzia i corpi, altera le percezioni, limita la crescita che avviene invece nell’espansione del sé nel mondo reale. Da qui l’ansia, che tutti i ragazzi mi hanno detto di provare.

Ciascuno, nel corso dei nostri incontri, ha ammesso di soffrire di un non meglio specificato senso di ansia. Ho cercato, avvalendomi di vari strumenti, in primis della maieutica socratica, di farmi dire da loro stessi quale ne fosse la causa. Li facevo riflettere sul fatto che sapere l’origine di questo stato aiuta a contenerlo, pur sottolineando che non ci può essere una sana adolescenza senza stati di ansia, dovuta alle grandi trasformazioni del corpo e della mente. La loro ansia esulava però da quella propria dell’età; era una manifestazione di un vero e proprio disagio, quel dolore della mente che non si vede, ma è pervasivo e richiede cura. Era l’ansia causata dal senso di solitudine e disorientamento, che urla silenziosamente l’urgenza di ascolto da parte di adulti significativi di riferimento, di supporto e di guida.

Fonte: Caterina Majocchi | Avvenire.it

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