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Cari Jannik e Sasha, voglio dirvi quanto vale il vostro abbraccio

Il commovente gesto di consolazione da parte del nostro tennista verso lo sconfitto parla di pace e di fratellanza più di mille parole

Più di un ace chirurgico, più di un passante millimetrico, più di un’elegante volée, più di un drop shot che atterra languido oltre la rete e lì s’accascia e muore. Più dei colpi ora di martello ora di pennello. Più di tutto questo, del trionfo di Sinner agli Australian Open – uno dei quattro tornei più importanti dell’anno, i tornei del Grande Slam – rimane nella memoria un’immagine, colta dalle telecamere che tutto vanno a frugare, spesso inezie; ma talvolta catturano l’ineffabile.

Eccola: la partita è finita. Jannik Sinner è di fronte a Sasha Zverev, il numero uno della classifica mondiale davanti al numero due, il vincitore e lo sconfitto. Sasha ha gli occhi rossi di pianto. Può sembrare curioso veder piangere un atleta formidabile alto due metri meno un pelo, dal fisico statuario, per dire: un semidio o anche oltre, sui social una tifosa l’ha definito “Apollo”. Ecco, un tipo del genere, un tedesco con il cognome russo davanti a un italiano con il cognome tedesco, diverso eppure più forte: pel di carota, the fox (la volpe), arti nodosi dalla prodigiosa potenza e movenze feline, capace di fiondarsi al posto giusto sempre un attimo prima di qualunque mortale. Per Adriano Panatta: l’alieno.

Sasha ha gli occhi rossi. Ha provato a trattenerle, le lacrime, come faremmo e facciamo tutti in pubblico. E che pubblico: migliaia nell’arena, milioni al televisore. Jannik appoggia le braccia sulle spalle di Sasha, si avvicina e lo abbraccia. Ecco come l’hanno raccontata loro. Jannik: «L’ho visto giù e ho provato a dargli una mano. Alla fine siamo tutti compagni, no?». Sasha: «Ero abbastanza giù, molto provato. Penso che lui l’abbia notato. Ha detto che sicuramente solleverò uno di questi trofei nella mia carriera, perché sono troppo bravo per non farlo».

Stando alla cultura dominante, non può esserci spazio per pietà e compassione con l’avversario sconfitto. Esulta, grida, sbraita: la folla sarà con te perché in te potrà immedesimarsi chiunque ha poche, pochissime, men che nessuna possibilità di esultare per una vittoria. L’umanità acida e rancorosa così vuole il vincitore. E l’avversario è il nemico da disprezzare e umiliare. Se non lo fai sei un ingenuo buonista, orribile neologismo affibbiato nove volte su dieci a chi, semplicemente, è una persona d’animo buono e gentile.

Jannik non si accoda prono alla cultura dominante eppure, udite udite, è una persona di successo. Un campione. Uno che sa dire al momento giusto due paroline “buoniste” come “scusa” e “grazie”. Uno che si accorge degli altri, dai compagni della sua squadra ai raccattapalle. Li saluta, li ringrazia. Prima di esultare con i suoi spesso va a congratularsi con gli sconfitti, come ha fatto alla finale di Davis con gli olandesi.

E domenica con Sasha. «Siamo come studenti, in giro con la racchetta al posto di libri e quaderni» ha ricordato Jannik. Questo sono: giovani ragazzi bravi e fortunati che per undici mesi all’anno girano per il mondo, come nomadi, a rallegrare le folle. Ben pagati, certo. Eppure moltissimi di loro – proprio tutti temiamo di no – restano umani. Come Jannik e Sasha, atleti formidabili eppure fragili.

Quell’immagine è potentissima, più di mille parole, a favore della cultura della pace e della fratellanza. Così Sasha ha spiegato la sconfitta: «Sono io che non sono abbastanza forte, è molto semplice». Nel film The Apprentice di Ali Abbasi l’avvocato Roy Cohn rivela al giovane Donald Trump il segreto del successo: attacca sempre, nega sempre la sconfitta, proclama sempre vittoria. Ebbene, a Melbourne c’è qualcuno che resiste a questa logica disumana e crede a un altro genere di “successo”. Cari Jannik e Sasha, domenica al vostro abbraccio ci siamo uniti anche noi.

Fonte: Umberto Folena | Avvenire.it

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