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Mariapia Veladiano. Sguardi che fanno vivere

Un viaggio tra le parole in compagnia della scrittrice, educatrice, insegnante, preside, teologa, che ci racconta la famiglia

«C’è molta più teologia nei romanzi che nei trattati di teologia», sorride Mariapia Veladiano con la sua consueta dolce fermezza, «questo è per me molto evidente». Il dialogo con l’autrice di Quel che ci tiene vivi (l’ultimo di una lunga serie di romanzi, tra cui La vita accanto, vincitore del Premio Calvino nel 2010 e secondo al Premio Strega dell’anno successivo, recentemente diventato un film) parte da una frase semplice come uno slogan, ispirata dai libri di Marilynne Robinson: «Il segreto è quando Dio abita le storie, ma non si parla di Dio nelle storie». Parola di una scrittrice (e insegnante; ha lavorato per più di trent’anni nella scuola, prima come docente e poi come preside) che la teologia l’ha studiata davvero. «Leggere apre nuovi spazi interiori, aiuta ad affrontare la vita e a capire gli altri, è una palestra di discernimento e di empatia»; stavolta a parlare è papa Francesco, nella lettera indirizzata, il 4 agosto scorso, ai candidati al sacerdozio, ma anche agli operatori pastorali e a tutti i cristiani, per invitarli a non sottovalutare romanzi e poesie nel cammino di maturazione personale. «Penso a Dostoevskij», continua Veladiano, «Bernanos, Camus, la stessa Robinson, immensa. Questo perché la teologia ha sempre la pretesa di chiudere il cerchio dell’interrogazione. Da dove viene il male? Ecco, ve lo spiego, con prudenza, con tutti i distinguo, ma alla fine ve lo dico. Nessuno che scriva romanzi ha la pretesa di chiudere il cerchio. Il romanzo offre un finale, sempre, ma non la fine della risposta. I romanzi più insopportabili sono quelli edificanti. Chiedere ai bambini, per convincersi». Il dialogo continua esplorando parole che pensiamo di conoscere già, e per questo in molti casi hanno smesso di parlarci.

La parola famiglia è spesso messa in contrapposizione con la parola libertà. Ma ci sono legami che fanno fiorire. E, paradossalmente si è più liberi, più compiuti e felici quando si appartiene a qualcosa o a qualcuno. Oppure a un posto dove valga la pena tornare.
Libertà è una parola bellissima, è la parola del Vangelo, la buona novella che siamo liberi dalla paura. Della morte, in ultima analisi. È un diritto della persona, talmente importante che è il fondamento della creazione. Dio ci ha creati così liberi che possiamo allontanarci da lui, vivere come se non esistesse. Etsi Deus non daretur. Se noi togliamo la libertà dall’Annunciazione, non resta niente di niente, resta solo una sacra rappresentazione per uomini-bambini. Maria ha detto sì potendo dire no, ed è questa la sua grandezza.

Anche i religiosi hanno bisogno di una “famiglia” per lasciarsi raggiungere dall’amore di Dio. Mi ha colpito molto il motto del vescovo norvegese Erik Varden, monaco e scrittore, Coram fratribus intellexi, in cui sintetizza la sua esperienza che nessun uomo è un’isola e non ci si salva da soli, neanche se si ha una vocazione monastica.
Certamente la solitudine è intollerabile per le persone. Un po’ è così in tutti i miei romanzi. Alla fine ci si può salvare, nel senso di vivere una vita accettabile, ma solo se si esercita una responsabilità diffusa, se siamo consapevoli di essere responsabili gli uni verso gli altri. È quello che nella fede chiamiamo essere “fratelli”.

Ci sono «sguardi che fanno vivere», scrive nel suo ultimo libro. Un tema molto amato anche dalla poetessa russa Olga Sedakova: «Che cosa intendo, parlando di impressione di santità? Provo a dirlo per quanto mi riguarda: innanzitutto – scrive Sedakova – incontrando questo sguardo, ci vediamo visti fin nel profondo, e questo non fa alcuna paura (come ci sarebbe da aspettarsi). Non a caso l’uomo si nasconde allo sguardo onniveggente di Dio, come fece un tempo Adamo; al contrario, questo sguardo ci colma sconfinatamente di gioia e di vigore: là, nel profondo di noi appare visibile qualcosa che è possibile amare, che è “cosa buona”, e che noi stessi non riuscivamo ad immaginarci. Questo sguardo vede in noi la creatura divina. Ci dice “Non avere paura! Non avere paura di niente!”».
Certo. L’essere visti ci dà nuova vita, sempre. Per me l’esperienza fondante è stata la scuola. Sono stata vista come persona di valore proprio a scuola. Venivo da una famiglia normale. E in questa normalità sono stata riconosciuta. Mille e mille volte ho visto come questo “riconoscere il valore”, nella scuola, ha cambiato la vita dei ragazzi e delle ragazze. D’altro canto, è il Vangelo. Gesù vede Pietro, Simone, Matteo, Zaccheo… e li riconosce come persone piene di valore. E da lì comincia la storia. Se invece vediamo le persone come categorie (migranti, non credenti, musulmani, atei) è tutto finito. Si finisce nell’indistinto.

Si può sopravvivere solo se si è visti. Ma “l’essere visti, lo scoprirsi visti” non è sempre un’epifania dell’amore, può essere percepito e vissuto anche come una condanna; penso soprattutto alla protagonista di La vita accanto, “costretta” a essere buona perché non amata.
Rebecca non viene vista perché ci sono attese su di lei che sono, come dire, previe. Nelle aspettative dei genitori avrebbe dovuto essere lei a chiudere una storia di dolori e di colpe e per fare questo sarebbe stato necessario essere molto bella. Questo, con le dovute, ovvie differenze, capita a molti di noi. Il giudizio-pregiudizio su di noi ci anticipa. Un immigrato è prima un immigrato e poi una persona, nel nostro pregiudizio. Deve dimostrarsi “diversamente immigrato” e allora viene accettato. Una donna, lo stesso. Ogni volta che entra in un terreno tradizionalmente maschile, deve dimostrare che malgrado sia donna sa fare le cose. Questo è. Noi anticipiamo l’incontro attraverso il pregiudizio. Questo è tremendo per noi e per gli altri.

Pensando al tema della responsabilità, ovvero, alla disponibilità a lasciarsi raggiungere dalla realtà, ascoltando quello che ci chiede, mi viene in mente una delle etimologie creative di padre Alessandro Dehò, che trasforma la parola Doveri in una domanda: “Dov’eri?”. È questo, secondo padre Alessandro, che Dio dice all’uomo, dopo il peccato originale.
Allora. C’è stato un periodo, quello della scuola, da insegnante e preside, in cui ho amato molto la parola cura. Mi occupo di piante e giardini e cura è esattamente la parola. Tutto nasce e fiorisce se c’è cura. Questo comprende il vedere. Ogni giorno, vedere se la pianta ha bisogno di qualcosa. Immediatamente captare le foglie dello spathiphyllum che si afflosciano (è una pianta “drammatica” e mostra subito la sua sofferenza, ma se non la si vede, muore, presto), o il leggerissimo inclinarsi delle foglie del limone (resiste molto di più, ma non ci si può rilassare). C’è chi non le vede proprio, niente di niente, e non può coltivare fiori. A me sembrava che fosse la stessa cosa per i ragazzi e le ragazze. Vedere, intuire, intervenire presto, senza mirabolanti azioni. Ora che la parola cura è inflazionata e soprattutto è diventata patrimonio di una dimensione soprattutto intima del fare il bene, preferisco la parola responsabilità. L’etimologia (dal latino responsus, risposta) rimanda alla domanda. La responsabilità è la risposta che mi impegno a dare a una domanda e, però, bisogna prima ascoltare la domanda dell’altro. Viene prima l’altro. È questo. Non vengo prima io. E poi la responsabilità ha una dimensione immediatamente politica e sociale. Non è questione di intimismo.

Un’altra etimologia: felice racchiude la radice di fecondo. Un albero è felix quando la sua natura gli fa dare frutti, noi siamo felici quando siamo fecondi di vita, di progetti e di relazioni. È davvero così impossibile essere felici da soli? Davvero “fioriamo” solo nella relazione?
Credo di sì. Molti abissi di infelicità vengono da solitudini che a volte non vediamo. Penso al fatto che oggi molti, nell’età grande (è una bella espressione di Gabriella Caramore), vivono soli. Ci si chiude, l’orizzonte del pensiero si limita, le parole non servono più, si parla poco, si pensa poco. È chiaro che chi ha grandi risorse intellettuali ce la fa, ma ordinariamente è una tragedia. Non inevitabile. Infine si abita in condomini, quartieri. A volte bisogna forzare queste solitudini e creare relazioni impensate.

Il termine sapere indica qualcosa che è percepito da tutti come positivo. Ma è (anche) un verbo sopravvalutato, negli affetti e nella vita familiare; la pretesa di voler sapere tutto di un’altra persona contiene una sfumatura di violenza. Nei suoi libri, ci ha insegnato ad apprezzare una parola desueta, spigolare, raccogliere frammenti di quello che c’è.
Spigolare vuol dire raccogliere ai margini. Niente va buttato, certo, ma soprattutto qualcosa va sempre lasciato a chi è nel bisogno, è questo il significato nella Bibbia di questo verbo bellissimo. Spigolare è un’azione minuta, piccola, senza storia. Si trova che vale quello che sembra non valere.

Spigolare, raccogliere senza fretta. La fretta è forse il nemico più subdolo della famiglia, oggi. E anche di una vera, profonda e nutriente conoscenza, perché la fatica, il tempo, il lavoro di squadra sono fattori indispensabili a una crescita autentica.
È così. “Tutto subito” è non credere che ci sia un domani per cui lavorare, figli a cui lasciare un bene, nipoti per i quali preservare la terra. Vuol dire che manca il lievito delle relazioni, manca la fiducia. Ma questo rende anche noi tristi e angosciati. Come se il mondo finisse con noi e allora si può consumarlo e distruggerlo. Nessuno è felice nel ruolo di distruttore.

Fonte: Silvia Guidi | Cloniline.org

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