Quando è deceduto, la scorsa estate, Cormac McCarthy è stato riconosciuto come (tardivamente) era stato celebrato: come uno dei più grandi scrittori del secondo dopoguerra. È certamente per questo motivo che l’apparizione di un suo testo inedito, Il tagliapietre (Einaudi, da oggi in libreria; pagine 136, euro 15,50), generi curiosità e interesse forte tra i suoi lettori e la critica. Si tratta del testo di una pièce teatrale, concepita negli anni Settanta, pubblicato negli anni Ottanta, non andata in scena negli Usa per diversi anni (aleggiava sul testo un’accusa di velato razzismo) fino al 2001 e ora disponibile anche in italiano.
McCarthy aveva già utilizzato lo schema teatrale in Sunset Limited, dialogo tra un Nero e un Bianco sui grandi problemi e le ineludibili domande della vita. Qui il tentativo è più prettamente teatrale e mette in scena quattro generazioni di una famiglia di scalpellini afroamericani nel Kentucky. Qualcuno ha scritto che l’insuccesso di tale opera ha il suo perchè in una resa teatrale che sembra non aver pienamente centrato il bersaglio: di certo, il congegno drammaturgico della pièce è alquanto complicato (lo stesso protagonista è in scena e anche è il narratore della vicenda). Ad una lettura attenta, però, è indubbio che anche in una forma che non era propriamente la sua (seppur maestro nell’arte dei dialoghi, McCarthy è stato tipicamente un romanziere), l’autore de La strada sa trasportare il lettore (e se fosse, lo spettatore) dentro un sistema di valori e di visione morale che ha pochi eguali nella letteratura contemporanea. E che è ben precisata e ben definita, senza scappatoie: un’idea di mondo, di vita e di storia che ha a che fare con il mistero, anzi con il Mistero.
E infatti McCarthy, come altre volte nei suoi romanzi – con l’arte di addestrare cavalli, con il mondo post-apocalittico, con dialoghi tra improbabili personaggi capaci di vere e proprie epifanie del divino , sa costruire una metafora quasi cosmica per trasmettere una certezza, basilare come le pietre che bisogna tagliare per costruire una casa che resti in piedi: «La verità è la verità» scandisce Carlotta, la sorella del protagonista Ben. Un’affermazione tautologica, che si rischiara del suo alone criptico se la si mette in parallelo con un celebre passaggio di Sunset Limited: «“Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande”. “E che differenza c’è?”. “Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste”».
L’arte di tagliare le pietre diventa uno spettro tramite cui lo scrittore di El Paso fa passare una concezione “forte” del mondo, lontana da ogni relativismo: «L’arco dell’universo morale è certo lungo ma tende effettivamente alla giustizia» afferma ad un certo punto Ben, uno dei Telfair, la famiglia protagonista del Tagliapietre. Ha un sapore religioso, questo lavoro di aver a che fare con la pietra, secondo lo stesso Ben: «E se è vero che posare pietre può insegnarti il timore di Dio e la tolleranza verso il prossimo e l’amore per la tua famiglia è anche vero che questo sapere è instillato in te attraverso il lavoro e non attraverso una qualsivoglia contemplazione del lavoro».
La pietra richiama le fondamenta del mondo, riecheggia la solidità su cui ci si deve poggiare per conoscere la realtà e la convinzione ancestrale che su qualcosa bisogna pur costruire. Ben, alter ego dell’autore, lo scandisce in un altro punto del Tagliapietre, righedal sapore quasi metafisico: «Lo vedo lì che sorveglia il suo filo a piombo che non mente mai e non mente mai e il filo a piombo immobile indica l’inconcepibile centro della terra quattromila miglia sotto i suoi piedi. Indica un’oscurità ignota e inconoscibile sia di fatto che in teoria dove Dio e materia sono impegnati in una collaborazione silenziosa e sperduta nell’universo ed è questo a guidarlo quando dispone le sue pietre una su due e due su una come prima di lui facevano i suoi padri e come faranno i suoi figli e lascia che la pioggia le scolpisca se può».
Il Mistero che aleggia nelle pagine del Tagliapietre ha un nome preciso – è forse anche qui una delle ragioni della dimenticanza e dell’insuccesso di questo testo, troppo pregno della parola Dio per essere compreso in un mondo postreligioso? (Ancora il solito Ben Telfair) «Quanto al resto. Quanto al resto. So che il male esiste. Credo che non sia selettivo ma solo opportunista. Non so dove risieda lo spirito. In ogni cosa più che in nessun credo. La mia esperienza è molto limitata. […] Io non so niente di Dio. Ma so che qualcosa sa».
E nelle ultime battute, tra le tombe di un cimitero, Ben/Cormac McCarthy rilascia una verità di una profondità teologica insondabile, in cui fa eco un tratto pascaliano: «Niente si comprende una volta per tutte. Niente si raggiunge una volta per tutte. La grazia lo so somiglia molto all’amore e non la puoi meritare. È liberamente data, senza ragione né equità. Cosa potresti farla per meritarla? Cosa? Ciò di cui più ho bisogno è imparare la carità. Più di ogni altra cosa. Perché siamo tutti eletti, ciascuno di noi, e ci siamo imbarcati per un viaggio verso qualcosa di inconcepibile».
Fonte: Lorenzo Fazzin | Avvenire.it