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Arturo, Pina e quei figli che abbiamo accolto

Il nostro essere al mondo dipende da chi decise di aprirsi alla vita: ecco perché serve stare con le mamme per strappare bambini allo scarto

Cento miliardi di galassie non sanno nemmeno di esistere. Le stelle si accendono, scoppiano, scompaiono, senza averne memoria. Le rose e i pioppi, le balene e le giraffe, le lucciole e le rane, nascono, invecchiano e muoiono felici nella loro ignoranza. L’uomo, solo lui, il più strano tra tutti gli esseri viventi, pensa, riflette, pone domande, gioisce, spera, si deprime, uccide o salva vite. L’uomo, poeta, compositore, filosofo, scultore, inventore, contadino, cacciatore, pellegrino, religioso, padre, madre, figlio. Capace di programmare, decidere, inventare. In grado – se lo vuole – di annientare questa minuscola pallina che lo sostiene e gli dà da vivere. L’uomo che genera altri uomini, con i quali intreccia un legame indissolubile. La fede cristiana ci dice che non siamo foglie che il caso spazza via; che siamo stati pensati e amati da “Colui che ha fatto il mondo”. Non solo, ma che insieme a Lui siamo assurti alla vertiginosa missione di essere con-creatori.

La fede non elimina i dubbi che l’intelligenza pone, ma illumina il mistero nel quale siamo immersi. Anzi, parafrasando Chesterton, possiamo dire che è proprio il mistero a dare sapore e colore alle nostre giornate. È il mistero, infatti, che ci spinge a indagare, spaccare l’atomo, scendere negli abissi, sbirciare tra le nuvole; a rintracciare minuscoli frammenti di un tutto che ci sfugge. E continuare a indagare, a cercare, a trovare, aggiungendo tasselli nuovi al mosaico antico. Più avanza, l’uomo, più prende coscienza che dopo una vita di studi, di ricerche, di esperimenti, è ancora e sempre ai primi anni di scuola. Alla laurea, per fortuna, non arriva mai. Abbiamo cominciato a esistere essendo un invisibile puntino. Ci siamo trasformati migliaia di volte. Embrioni, feti, neonati attaccati alla mammella. Piccoli che sgambettano, bimbetti all’asilo, ragazzini, adolescenti, uomini, padri, madri, nonni. L’ultima, indesiderata, ma inevitabile trasformazione, sarà la morte.

La vita è bella. Anche quando pesa è bella. Ci siamo. Potevamo non esserci ma ci siamo. Potrebbe andare meglio ma ci siamo. Parmenide, corri in nostro aiuto, parlaci dell’essere. Tommaso d’Aquino, insegnaci a ragionare senza ingannare e senza ingannarci. Ippocrate, ricorda ai nostri fratelli medici di «non compiere mai atti finalizzati a provocare la morte». Mi sono ritrovato a vivere perché due persone si amarono. Se oggi, come voi, calco questa terra è perché essi non ritennero di appropriarsi del diritto di eliminarmi quando, fragile e incosciente, non avrei potuto difendermi. Siamo, e sempre saremo, debitori al Creatore e ai suoi preziosi collaboratori per il dono incommensurabile della vita. Abbiamo il dovere di non essere egoisti. Siamo entrati nel mondo noi, non possiamo decidere di interrompere il percorso della vita di nessuno, di chi è già nato e di chi ancora si nutre e respira nell’ovattato santuario materno. Fummo accolti, abbiamo il dovere di accogliere. “Non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te” è il comandamento antico, sempre valido, per credenti e non credenti. Trattami come vorresti essere trattato tu. Se i potentissimi guerrafondai che popolano il pianeta avessero il coraggio di inviare per primi i propri figli al fronte, dove le bombe dilaniano e distruggono, statene certi che non le scatenerebbero, le guerre.

Abbiamo bisogno di imparare a vivere; di innamorarci della vita. Più belli dei “Girasoli” di Van Gogh ci sono i girasoli del mio giardino. Si, proprio quelli che svettano a ridosso della mia finestra. Van Gogh, genio inimitabile, li ha riportati sulla tela con tale maestria da farli sembrare veri. I miei non sembrano, sono veri. E vivi. Eppure, ci incantiamo davanti ai dipinti ma non sempre ci stupiamo davanti a un campo di grano puntellato da papaveri. Grande Van Gogh, grande Beethoven, grande Leopardi, grande Platone, grande Bernadette Soubirous, grande sei tu, piccolo Arturo, nato il mese scorso con la sindrome di Down.

Come ha fatto Giuseppe Verdi a “sentire” dentro quelle meravigliose note della Marcia trionfale? Se oggi fanno impazzire noi che semplicemente le ascoltiamo, che cosa dovettero provocare in lui quando gli martellavano in testa prima di finire sul pentagramma? Senza Giuseppe Verdi non avremmo mai avuto le stupende sinfonie di Verdi. Senza la mia mamma e il mio babbo, i miei fratelli e io non avremmo mai fatto parte di questa affascinante e problematica umanità. Questo parlare è duro? No, al contrario, è il parlare ingenuo dei bambini, gli unici che sanno ragionare senza imbrogliare. Ci siamo. Il cuore si allarga fino a lacerarsi. Il bisogno di dire “grazie” si fa impellente.

Sono un prete, non ho figli, ma posso amare come può amare un genitore. Tra le tante persone con le quali ho percorso, e vado percorrendo, un tratto di strada, ce ne sono alcuni – tanti, per la verità – che sento figli e più che figli. Sono coloro il cui destino stava per concludersi in modo tragico se non fossi arrivato. La fogna aveva già spalancato le fauci per ingoiarli, triturarli e scaraventarli nell’oblio. L’aborto era stato già deciso. “Non arrenderti mai” mi augurò un amico il giorno in cui fui ordinato sacerdote. Non arrenderti, insisti, lotta, sopporta, tenta; anche se cadi, rialzati. Osa. Forse non cambierai il mondo, ma di certo ti sarà dato di salvare una vita.

La cena che portiamo ai senzatetto, non mette fine al dramma della miseria, ma sfama e dona speranza a una moltitudine di fratelli e sorelle poveri. «Se ognuno fa qualcosa, qualcosa di bello accadrà», diceva padre Pino Puglisi. La mafia lo uccise illudendosi di metterlo a tacere. Fece un autogol, ne amplificò la voce. Ascoltiamola.

Pioveva, quella sera. Una telefonata. Anna mi chiede di andare a casa sua con urgenza. Corro. Adriana, sua figlia, incinta, ha deciso di abortire. Antonio, il fidanzato, come spesso accade, ha minacciato di abbandonarla se non lo avesse fatto. Rimaniamo insieme tutta la notte. Una notte di agonia. Adriana è indecisa tra l’amore per il suo ragazzo e la vita che le palpita dentro. Allo spuntare dell’alba, di nascosto, esce, raggiunge la clinica, firma. La sentenza è stata emessa. La speranza può essere riposta. Non arrenderti mai. Non tutto è perduto. Ci rimane ancora la preghiera. Chiniamo il capo. Miracolo. La ragazza scappa da quel luogo di morte e fa ritorno a casa. Pina nasce. Diventa il centro della famiglia, la gioia dei nonni, di chi l’ha chiamata al mondo, e mia. Adriana non ha mai smesso di ringraziarmi. Diciamocela tutta, questa benedetta verità, smettiamola di essere ipocriti, ripetiamola a noi stessi e a coloro che hanno paura della vita nascente. Mai – e dico mai – ho visto una sola donna che, dopo aver accarezzato l’idea di abortire, aiutata e supportata dai nostri volontari o da me , si sia pentita del passo fatto. Sempre – e dico sempre – ho incontrato, invece, donne che anche a distanza di 10, 20, 30 anni dal giorno in cui cedettero alla bugiarda sirena dell’aborto, continuano a rimpiangere quel figlio al quale non permisero di vedere il sole.

Coraggio, donne! Forza! Non lasciatevi derubare del bene più prezioso che un essere umano può donare a sé stesso e al mondo. Coraggio, maschi. Non scappate. Non siate vigliacchi. Non caricate sulle sole spalle della signora che ha creduto in voi la responsabilità di una decisione tanto pesante. Accoglietelo, coccolatelo, educatelo, amatelo, godetevelo, questo figlio che – ne sono certo – sarà la vostra e la nostra gioia. In questo mondo tanto grande ci sarà spazio anche per lui. E se proprio non dovreste farcela, deponetelo tra le braccia di chi lo amerà e se ne prenderà cura. Ma fatelo vivere. Ne ha il diritto. Nella fogna, no. Mai.

Fonte: Maurizio Patriciello | Avvenire.it

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