Partecipo da anni a un progetto di orientamento alla scelta del futuro dedicato a ragazzi degli ultimi due anni di superiori, ma il discorso vale anche per l’imminente iscrizione alle superiori. Lo abbiamo intitolato: “Universitas: che cosa vuoi fare di grande?”. La prima parola restituisce energia a quella invenzione medievale, l’università, nata per cercare unità (uni-verto) nella meravigliosa molteplicità del reale, come la luce che, penetrando nelle cattedrali attraverso i ricami di pietra dei rosoni, illumina l’interno. La seconda parte corregge la fatidica domanda posta ai bambini. Chiedere che cosa vuoi fare “di” e non “da” grande punta all’unicità e unità della persona nel tempo, perché la grandezza non sta nella quantità ma nella qualità, non in quanti anni di vita hai ma in quanta vita c’è negli anni che hai. Un seme è già grande per la sua energia, ed educare è porre le condizioni perché quella grandezza abbia luogo e si compia. Nessun contadino disprezza un seme perché è minuscolo, ma lo aiuta a realizzare la sua concentratissima potenza. Il progetto di orientamento che dura alcuni mesi comincia con un incontro pubblico, in presenza e a distanza, durante il quale ragazzi di tutta Italia pongono domande a chi ha vissuto e riflettuto su quella scelta così delicata. Quest’anno ero insieme a Mario Calabresi. Che cosa ci hanno chiesto? Che cosa abbiamo notato?
Tutte le domande avevano in comune la paura, non la benedetta paura di chi sta per compiere ciò per cui evolutivamente l’adolescenza (fenomeno squisitamente umano nella sua lunghezza) è fatta: uscire di casa per farne una nuova. Non abbiamo toccato la trepidazione di chi inaugura, esplora, rischia, ma l’angoscia di sbagliare, una morsa a due ganasce che stritola ciò che è proprio dell’adolescente: l’energia creativa.
La prima ganascia è l’ignoranza di se stessi: 13 anni di scuola (8 nel caso della scelta delle superiori) non sono serviti a scoprire talenti e limiti, e chi non conosce se stesso non può prendersi cura di sé e del mondo. Quanti docenti possono dire a un ragazzo per cosa sia portato non basandosi su impressioni fugaci ma su un’osservazione sistematica e prolungata che comporta comunicazione tra chi li guida e li ha guidati (passare le consegne da elementari a medie a superiori dovrebbe essere la normalità di un sistema educativo)? Ma come possono gli insegnanti fare anche questo se all’esplorazione dei talenti e dei limiti non viene dedicato tempo e confronto, se le giornate di orientamento sono ridotte per lo più a vetrine per accaparrarsi iscritti? La seconda ganascia è il terrore del giudizio su un’eventuale scelta sbagliata, come se il tempo impegnato a trovare la propria strada fosse una condanna a perdere nella corsa odierna al successo; e come se l’errore stesso non fosse la base di ogni scoperta ma il giudizio di condanna, inevitabile in un sistema educativo basato su competizione e quantificazione della performance: “rendimento” in “crediti/debiti” e non “compimento” in “talenti/limiti”. L’esito di questa morsa fatta di ignoranza di sé e angoscia di fallimento (parola coerente con il sistema crediti/debiti) consegna alla paura del vuoto, che porta a inseguire non la cosa più “grande” ma la più “vicina”, cioè quello che fanno tutti, perché il desiderio umano, che è imitativo, in assenza di chiarezza, copia, come fanno i bambini. E oggi copia il successo, perché, nella società della performance, il successo fa la felicità e non viceversa, ma il successo, come tradisce la parola, può non accadere mentre la felicità, a certe condizioni, accade.
Quali? Felicità, parola la cui radice indicava l’albero che dà frutto, è il compimento della propria specialità (la specie umana) e unicità (il modo in cui si dà in me). Quello che mangiamo di una mela è in realtà il nutrimento, la protezione e il mezzo di trasporto del seme: l’educazione sta all’unicità della persona come la mela al semino. La scelta quindi non avviene nel vuoto, ma nella somma di genetica ed epigenetica (DNA ed educazione), per questo non trattiamo allo stesso modo il basilico, la rosa e la quercia… Figuriamoci una persona! A conferma di tutto ciò una ragazza ha chiesto: “Soldi o passione?”. Domanda che tradisce la scissione interiore di una intera cultura in cui essere e fare non si parlano. Il lavoro da traduzione dell’essere nel fare, si riduce a condanna per ottenere l’indispensabile per il successo: il denaro.
La passione, che è gioia e fatica creativa, grandezza dell’unicità di ciascuno, viene relegata, in partenza, a sogno, hobby, tempo libero. Questa scissione (in inglese Severance, titolo della inquietante serie tv in cui gli impiegati di un’azienda sono sottoposti a una procedura medica che separa vita personale e lavoro in zone della memoria che non comunicano più) è la scissione tra essere e fare. Ma se il melo fa mele, l’umano fa soldi? No, l’umano fa umanità (realizza i propri talenti a beneficio della comunità) e nel farlo riceve anche il dovuto riconoscimento socio-economico.
Se un ragazzo pensa sia impossibile armonizzare essere e fare, e deve quindi rinunciare o alla passione o ai soldi, quel ragazzo è “scisso”. Possono soldi e passione stare ancora insieme? Sì, solo attraverso un lavoro paziente sul “che cosa vuoi fare di grande”, perché un giorno verrai pagato per la tua grandezza, cioè per la tua unicità: tu sei e quindi fai qualcosa in modo unico, purché quel modo tu l’abbia scoperto e coltivato.
Ma quel lavoro che tanti altri fanno tu la fai come nessun altro? Questa specificità sarà sempre più necessaria, perché l’AI ci rimpiazzerà in ciò in cui siamo sostituibili, rendendo ancora più specifico ciò in cui non lo siamo. Questa “grandezza” si scopre nell’infanzia e nell’adolescenza, si coltiva e allena nella preparazione al lavoro (università e/o altro percorso), fruttifica (senso) e frutta (soldi) nel lavoro.
Ma come può un seme dar frutto se non sa che seme è, non è stato messo nel terreno giusto, non è stato curato come serve? Ne va della felicità, perché l’unica energia che si alimenta usandola, come la batteria di una macchina, è la vocazione, energia data dal senso che ciò che faccio ha prima per me (gioia) e poi per gli altri (riconoscimento socio-economico): motivo per cui è necessario ma non sufficiente aumentare gli stipendi per avere insegnanti migliori, perché lo saranno solo quelli che hanno la vocazione. Il lavoro è il “frutto della passione” solo se è la relazione viva con quella parte di mondo che mi chiama perché ha bisogno della mia creatività.
Un esempio che riassume tutto è per me Lucio Battisti, che sentì il richiamo della musica alle medie: «C’erano due ragazzi nel mio palazzo che suonavano la chitarra… cominciai a rompere le scatole a mio padre per avere la chitarra. Mio padre diceva “le solite manie”, io insistetti finché per la licenza media della terza, ottenni questa chitarra”» (E.Assante, Lucio Battisti). Il ragazzo, lasciato solo, si scoraggiò ma qualche settimana dopo, in vacanza, incontrò «Silvio Di Carlo, elettricista di mestiere e chitarrista per passione, considerato un po’ pazzo, lo scemo del paese. Tutti ridevano perché andavo a lezione da lui, ma non era per niente scemo. Mi ha insegnato le prime cose». Lucio vorrebbe dedicarsi del tutto a suonare, ma il padre vede nella chitarra un passatempo non un lavoro, così il ragazzo accetta di studiare e diplomarsi come perito elettrotecnico, ma dopo: «Il padre non molla, gli combina incontri, colloqui di lavoro, che puntualmente si concludono con Lucio che dice agli interlocutori: “Sono venuto qui perché mi ha mandato mio padre, però io devo fare il chitarrista, per cui adesso la saluto”».
Il resto è musica che amiamo. Tutti hanno un talento, e se non è cristallino, testardo (un padre contro) e fortunato (l’elettricista) come Battisti, è ancor più necessario un sistema educativo orientato a scoprirlo per rendere “naturale” a un ragazzo non la sua scissione ma il coraggio di scegliere la sua grandezza, perché solo così grande potrà essere anche la sua gioia.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it