Il 6 febbraio ricorre la Giornata internazionale della tolleranza zero alle Mgf. Nel nostro Paese, secondo i dati raccolti dall’Università Bicocca di Milano nel 2019, circa 87.600 donne sono state soggette a questa pratica, di cui 7.600 minorenni, principalmente di origine nigeriana ed egiziana. Sarebbero circa 5.000 le bambine a rischio di subirla. La Ong lavora per sradicarla e prevenirla attraverso le figure delle community trainer
In molte culture e società africane, in particolar modo subsahariane, «donna non si nasce, si diventa». Il postulato di Simone De Beauvoir, che a metà Novecento aveva scosso le fondamenta della cultura patriarcale occidentale, se applicato a un contesto come quello dell’Africa rurale racconta una storia diversa, fatta di retaggi sociali e culturali plurimillenari dalle derive spesso brutali. In molte di queste comunità, infatti, il rito di passaggio che sancisce l’ingresso nel mondo adulto delle giovani donne consiste nella mutilazione genitale femminile: una pratica violenta che prevede l’asportazione o l’alterazione dell’apparato genitale esterno della donna. Sono pratiche spesso eseguite senza anestesia, in contesti non sanitari, che comportano un altissimo tasso di mortalità.
Eppure rappresentano il rituale di ingresso nella propria comunità di riferimento: definiscono l’identità delle donne che le subiscono, conferendo loro il titolo necessario per appartenere alla comunità e, in molti casi, di diventare mogli. Donne quindi si diventa tramite la mutilazione genitale. Molto spesso, infatti, questa pratica culturale rientra all’interno di un contesto socio-economico stratificato e complesso, dove i matrimoni, basati sul prezzo della sposa, rappresentano una vera e propria transazione economica dove i termini di scambio sono la fertilità della donna e cospicue somme di denaro. Erroneamente scambiate per pratiche religiose, in realtà le mutilazioni genitali femminili fanno parte di un orizzonte culturale, sociale ed economico ben radicato e stratificato in un contesto avulso da regolamentazioni e protezioni dei diritti umani, giustificate per lo più come tradizioni millenarie e quindi parte integrante dell’identità collettiva di molti gruppi etnici.
Seppure i Paesi con incidenza maggiore siano Somalia, Guinea, Gibuti, Sierra Leone, Mali, Egitto, Sudan, Eritrea, Burkina Faso, Gambia, Etiopia, Mauritania, Chad e Indonesia, in realtà tali pratiche sono state rilevate in 96 Stati, interessando quindi tutti i continenti, Europa compresa. Si stima che su suolo europeo, infatti, sono oltre 600.000 le donne portatrici di Mgf e 190.000 quelle a rischio in 17 paesi. Solo in Italia, secondo i dati raccolti dall’Università Bicocca di Milano nel 2019, circa 87.600 donne sono portatrici di Mgf, di cui 7.600 minorenni, principalmente di origine nigeriana ed egiziana. Sarebbero circa 5.000 le bambine a rischio di subire tale pratica.
Il 6 febbraio è la Giornata Internazionale della Tolleranza Zero alle mutilazioni genitali femminili. Molta è ancora la strada da fare per sradicarla definitivamente, benché siano già presenti normative internazionali a riguardo che ne hanno diminuito l’impatto nell’ultimo trentennio. L’impegno è quello di eliminare questo atto di violenza di genere entro il 2030, secondo l’Agenda globale degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per il 2030. La Ong ActionAid si impegna da anni nella lotta contro le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni precoci, attraverso programmi cofinanziati dall’Unione Europea come AFTER, CHAIN e Join our Chain. «Partiamo dal presupposto che le Mgf vengono praticate in tantissimi paesi del mondo, in tantissime comunità diverse, in modalità differenti ma anche in età diverse, per cui le conseguenze che hanno sulle ragazze e le donne variano. Se una bambina è stata sottoposta al taglio a otto giorni di vita, come accade in alcune comunità nigeriane, probabilmente non avrà nessun tipo di ricordo. Potrebbe però presentare delle conseguenze a livello fisico successivamente come cisti, infezioni», racconta Benedetta Balmavedere, project manager di Chain. «Questo cambia invece nei casi in cui la bambina è già in età preadolescenziale e quindi ha un vero e proprio ricordo di quando le è stata fatta la mutilazione. Quindi oltre ad avere conseguenze fisiche, ce ne saranno altre psicologiche legate al trauma, del dolore subito, di come era stato fatto».
Trattandosi di una pratica culturale e identitaria, l’approccio alle donne a rischio o che hanno già subito una mutilazione è molto delicato: «Va sempre un po’ modificato a seconda delle donne con cui noi ci interfacciamo. E la stessa cosa riguarda anche la loro presa di consapevolezza. Molto sta nell’informativa che viene poi fornita spiegando quali sono alcune delle possibili conseguenze di queste pratiche, così che magari siano le donne stesse a rifletterci e a capire che le difficoltà che hanno avuto fino a quel momento possono effettivamente essere legate a quel taglio». L’aiuto consiste principalmente in un supporto psicologico e informativo, che rappresenta il primo step per evitare il perpetrarsi di questa pratica: «Non siamo un servizio socio sanitario. Quello che cerchiamo di fare è di supportarle in un percorso di presa di consapevolezza di quello che potrebbe essere successo loro e anche di superamento di quello che è la normalizzazione. In moltissime comunità, infatti, non c’è neanche l’idea che è possibile chiedere un aiuto per superare certe difficoltà e complicazioni».
Un approccio simile richiede tatto, cura nell’ascolto, apertura alla diversità e soprattutto rispetto per le persone interessate. Action Aid si serve quindi di figure chiave, le community trainer, specializzate nella mediazione linguistico-culturale e che solitamente sono parte della comunità di riferimento. «È fondamentale cercare di non avere un giudizio verso le persone che hanno subito o praticano le mutilazioni. Personalmente negli anni ho capito che tutte le persone che si sottopongono a questa pratica lo fanno semplicemente per mantenere un’identità. Le mamme la portano avanti non perché non vogliono bene alle figlie, ma è proprio il contrario. Nella loro idea, nella loro visione delle cose, lo fanno proprio perché vogliono bene alle figlie» racconta Riham Ibrahim, 24 anni, community trainer della comunità egiziana milanese «Una volta che una donna decide di interrompere questa tradizione, in realtà la interrompe per sempre. I dati statistici confermano che una volta che la pratica viene interrotta, quella generazione di donne non la subirà più. È un’enorme vittoria».
Poter accedere alle comunità e fornire una prospettiva diversa rispetto alle tradizioni plurisecolari tramandate di madre in figlia rappresenta il primo ostacolo per la lotta contro le mutilazioni. «Nella comunità usano un’altra parola per riferirsi a questa pratica, un altro sostantivo che poi ho scoperto che nelle varie comunità prende significati diversi. Nella comunità egiziana, ad esempio, prende il nome di circoncisione femminile. Esistono due pratiche chiamate circoncisione, una maschile e una femminile, ma quest’ultima non è una circoncisione, è una vera e propria mutilazione. Diverse volte ho affrontato anche discussioni pesanti all’interno della comunità, perché chiaramente dal punto di vista di una persona che ha sempre vissuto solo all’interno, questo è un atto identitario. Se tu fai presente che forse non è una pratica molto salutare, la persona si sente con il dito puntato addosso, minacciata nella propria identità», spiega Riham, «noi cerchiamo quindi di entrare nella vita delle persone in punta dei piedi e soprattutto non giudichiamo mai nessuno, semplicemente portiamo la nostra visione delle cose. Poi sta alla persona a decidere quali sono le scelte che vuole prendere».
Inoltre, la difficoltà per le donne che decidono di chiedere aiuto sta anche nell’affrontare lo stigma sociale da parte di coloro che non fanno parte delle comunità interessate, che si fonda sul pregiudizio che siano pratiche giustificate attraverso la religione. Ma né l’Islam, né l’ebraismo né il cristianesimo prevedono un simile costume all’interno dei propri precetti. La disinformazione in ambito medico, inoltre, comporta anche un aiuto inadeguato o insufficiente, che compromette spesso il tentativo di migliorare le condizioni di vita delle donne che chiedono aiuto.
«Molte persone non sanno neanche dell’esistenza delle mutilazioni genitali. Immagina una ginecologa che per la prima volta si trovi davanti a una situazione del genere: non avrebbe gli strumenti necessari per aiutarla», continua Riham. «Quando ero piccola non ne ero pienamente consapevole. Vedevo amiche di amiche che la subivano, persone a me neanche tanto lontane, e mi chiedevo il perché. Sono quindi andata un attimo a informarmi, inizialmente per caso, poi è diventata una vera e propria sfida sociale. Vedere stare molto male le ragazze che la subivano – parliamo di dodicenni e quattordicenni – mi ha spinto a diventare volontaria e poi a farne un lavoro».
Fonte: Giorgia Valeri | FamigliaCristiana.it