Passeggio tra i sentieri che costeggiano i cortili degli antichi edifici dell’università di Cambridge dove sono stato invitato dalla Italian Society per una conferenza. È domenica mattina, la luce del sole sbrina i prati e sbrilla le pietre antiche, cori impeccabili attraversano le svettanti vetrate delle cappelle dei college, studenti tacciono in biblioteche gremite. A guidarmi c’è un gruppo di ragazzi italiani che studiano lì: matematica, bioingegneria, greco, intelligenza artificiale, statistica… a livelli differenti (triennio, master, dottorato). La gioia di una vocazione certa illumina i loro volti in una università tra le prime (1209), quando le università erano necessarie alla vita di una comunità: le vocazioni sono molteplici ma la realtà è una, e per scoprirla ci vuole una comunità di maestri e studenti. Mi sono commosso quando ho salutato quei ragazzi, perché hanno ancora intatto l’amore che porta alla conoscenza, che purtroppo vedo spegnersi in altri contesti. Quegli edifici secolari, in cui adulti e giovani cercano insieme, sono sorti proprio per custodire e allenare il modo specifico di ciascuno di scoprire il mondo e farne professione. Ho chiesto loro chi e dove saranno tra dieci anni, le loro risposte erano consapevoli e coraggiose. Non potrebbe essere così per tutti?
Chi fondò posti come Cambridge, nel tanto odiato Medioevo, li chiamava «universitas magistrorum et scholarium» (unione di maestri e di studenti), per indicare la comunione che comporta la ricerca della verità, perché non si dà corpo (sociale) senza uno scopo comune, come nel corpo umano ogni organo, facendo il suo, fa il tutto. Ciascuno di noi è qui sulla Terra per raccontare il proprio stupore di fronte alla realtà, perché trasformato in lavoro va a beneficio di tutti, dall’amore per la tavola a quello per le stelle. Che cosa finora hai amato veramente? Che cosa ti ha afferrato e reso felice? Questo è ciò di cui un ragazzo ha bisogno per venire alla luce e il mondo per venire al mondo. Accade come quando dobbiamo arredare casa e cominciamo a notare i particolari di quelle altrui, i negozi di mobili e persino gli oggetti di scena nei film. Quello che prima non vedevamo «appare», perché la realtà diventa reale solo se la corteggiamo. In uno di quei giardini di Cambridge, dove già occhieggiavano timidissime fioriture, dei turisti facevano a gara per fotografarsi con una mela in testa, perché lì c’era un albero nato da quello sotto il quale Newton vide le tracce della gravitazione universale. Una mela caduta manifestò una legge di natura che tutti avevano sotto gli occhi ma nessuno vedeva. Le leggi di ogni cosa (politica, società, arte, matematica…) sono lì fuori, ma solo chi ne è innamorato riesce a vederle, perché non si danno aumenti di conoscenza senza aumenti di amore, nelle relazioni umane come con le cose. Anche Cézanne si fece bastare qualche mela per stupire il mondo perché, se tutti guardavano ciò che lui guardava, nessuno vedeva ciò che lui vedeva: il fondamento della bellezza, cioè della vita, nel tanto trascurato «luogo comune», cioè dove siamo in comunione con la vita. Come fare ad aiutare i ragazzi a vedere al modo unico di Newton o Cézanne se non hanno mai amato una mela? Ricordo un melo in campagna da cui coglievamo i frutti per mangiarli subito dopo averli sfregati sulla maglietta, erano croccanti e a volte abitati… Quelle mele erano «vive» e mai ho creduto, come ho sentito dire ad alcuni bambini, che i frutti nascono nelle ceste del supermercato e le uova sugli scaffali. Dobbiamo restituire la realtà a ragazzi consegnati alle astrazioni digitali, persino del sesso e del cibo, perché solo la realtà, rapporto tra il nostro corpo e quello del mondo, fa innamorare della vita. Solo così una mela può svelare una legge fisica e metafisica, perché ogni cosa viva chiama in causa tutto l’universo: l’università è in ogni angolo. Se l’educatore aiuta a rendersi conto di ciò di cui viviamo, di ciò che ci rende vivi, allora a casa e a scuola possiamo ancora allenare questo sguardo attento e gioioso sulle cose, come quando alle elementari cominciai a collezionare minerali perché un professore universitario di mineralogia me ne aveva parlato come oggetti magici e me ne aveva regalati alcuni: per me toccare quelle pietre misteriose e impararne i nomi (tormalina, pirite, quarzo, magnesite…) era viaggiare in un mondo bellissimo. Quegli oggetti erano soglie per entrare con fiducia nella realtà, come ha spiegato il grande pediatra e psicanalista Donald Winnicott: il bambino accede alla realtà attraverso «oggetti transizionali», cose che manipola, morde, stringe, come un gioco o un pupazzo (la coperta di Linus o la tigre di Calvin & Hobbes), per esplorare il mondo senza averne paura. Questi oggetti, dando sicurezza e vincendo il timore della solitudine, allenano il coraggio del bambino a esplorare la realtà. Oggi purtroppo questi «mezzi di trasporto» (inteso sia come uscita sia come coinvolgimento amoroso) sono spesso sostituiti dallo smartphone, che però è un falso oggetto transizionale, perché non porta fuori (estasi) ma in-trattiene (stasi). Senza una relazione «corposa» e «corporea» con essa, la realtà diventa astratta e muta perché non viene interrogata, e noi a poco a poco ci disamoriamo e annoiamo: stupidi anziché stupiti. Guardando la campagna che si stende attorno a Cambridge, mentre vado via grato per quelle ore, ripenso a questi studenti per i quali «studio» è ancora ciò che significava in latino: «amore», tanto che Dante nel Convivio definiva lo studio «applicazione dell’animo, innamorato di una cosa, a quella cosa», un vero corpo a corpo. Mi chiedo perché questo «amore» non possa toccare a molti di più e non solo a pochi fortunati. La risposta non è solo economica (e quindi politica, oggi più che mai per i cervelli in fuga) l’avevano data già negli anni ’60 gli psicologi americani Robert Rosenthal e Lenore Jacobson che, dopo aver osservato i bambini di una scuola elementare, avevano indicato ai maestri i 10 più intelligenti. Tornati un anno dopo per verificare l’esito della selezione, constatarono che quei bambini erano effettivamente divenuti i migliori della scuola. Gli insegnanti chiesero agli psicologi come, l’anno prima, li avessero identificati così rapidamente. I due svelarono che la selezione era stata una finzione, avevano scelto i 10 bambini a caso, non erano i più intelligenti ma lo erano diventati. Come? L’esperimento (noto anche come effetto Pigmalione) serviva a dimostrare che l’intelligenza è relazionale e quindi il rendimento dipende da come un insegnante guarda l’alunno: se pensa che sia un’aquila lo renderà aquila, se pensa che sia un asino lo renderà asino. Un bambino diventa «come» è guardato: era stato proprio il «ri-guardo» (sguardo ripetuto, cioè attento) degli insegnanti, influenzati dal pre-giudizio sui 10 prescelti, a rendere speciali quei bambini. Per dirla alla latina per diventare studenti («amanti») bisogna essere studiati («amati»), perché l’educatore «crea» effetti di essere a prescindere dalle qualità di partenza dell’allievo: l’intelligenza, come una pianta, cresce per cura. È la dimostrazione che quella «universitas magistrorum et scholarium», unione di maestri e studenti – a cui dovrebbe aspirare ogni sistema educativo se non fosse soffocato da burocrazia, ricerca del potere e mancanza di professionalità – è necessaria per far fiorire vocazioni e accade solo grazie al «pre-giudizio» che ogni persona è unica, perché solo così lo diventerà realmente e una sola mela continuerà a chiamare in causa l’universo, perché ci sarà ancora qualcuno capace di amarla più del proprio cellulare.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it