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Comunicazione politica nell’era dei social: big tech e potere statuale

La campagna elettorale americana è un esempio concreto della trasformazione della comunicazione politica, tra opportunità di engagement e possibilità di manipolazione e mercificazione.

lla cerimonia di insediamento di Donald Trump, lo scorso 20 gennaio, erano presenti in prima fila molti ceo delle big tech come Sundar Pichai (Google), Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Meta) e Shou Zi Chew (TikTok). La loro presenza sembra ben rappresentare non solo la strategia di campagna elettorale di Trump, ma più in generale il nuovo assetto della comunicazione politica, e quanto il web e in particolare i social media stiano ridefinendo il dibattito pubblico globale, con le opportunità e rischi che ne derivano.

Cittadini, esponenti politici e istituzioni possono interagire oggi in maniera immediata. Se da un lato le piattaforme digitali rappresentano una grande opportunità di allargamento dell’informazione, dall’altro, senza il filtro dei media tradizionali e in un contesto caotico come l’ambiente social, è spesso difficile resistere a manipolazioni e disinformazione (volontarie o meno). Il carattere privato delle piattaforme solleva poi questioni di mercificazione e personalizzazione della politica: se è vero che la politica ha sempre avuto una dimensione di comunicazione persuasiva, i social ne hanno amplificato la logica commerciale. I politici o le idee politiche sembrano sempre più trasformarsi in prodotti da vendere, mentre i cittadini assumono il ruolo di consumatori da convincere con strategie di marketing mirate e basate sui dati personali.

“In questo contesto, i social media rappresentano un processo pionieristico nell’introduzione di nuove esperienze partecipative. L’esplorazione dei meccanismi di tali strumenti evidenzia la centralità e la predominanza della comunicazione all’interno del contesto politico” spiega Daniele Battista, PhD, assegnista di ricerca presso il dipartimento di Studi politici e sociali UniSa a C’è futuro e futuro, “le attuali strategie di comunicazione avanzano in una precisa direzione, proponendo un sistema di intercreatività. Il tutto si svolge in una dimensione di continuità tra il mondo offline e il mondo online”.

Le strategie digitali di Trump e Harris 

L’ultima campagna elettorale americana ha visto i media tradizionali completamente superati dai social. Sia Donald Trump che Kamala Harris hanno puntato tutto sull’engagement online: il primo ha privilegiato X e YouTube, mentre la seconda ha fatto di TikTok il centro della sua strategia. Il ruolo delle big tech nel sostegno all’amministrazione Trump è stato poi determinante anche a livello economico: Elon Musk ha contribuito con 250 milioni di dollari alla campagna elettorale, aggiudicandosi il titolo di maggiore investitore privato della storia delle campagne elettorali americane. I social hanno permesso ai candidati di bypassare i media tradizionali e comunicare direttamente con la loro base elettorale.

Un strumento rilevante in questa stagione elettorale è stato il podcasting, che ha offerto ai candidati un modo informale ma più approfondito di interagire con gli elettori. Kamala Harris è apparsa nel famoso podcast “Call her daddy”, mentre Trump è stato ospite di “The Joe Rogan experience”, dove ha rilasciato un’intervista lunga tre ore. Poiché il pubblico dei podcast è alla ricerca di contenuti approfonditi, questo mezzo si è rivelato prezioso per umanizzare i candidati e raggiungere gli elettori a un livello molto più personale di quello tradizionale.

Una delle strategie più sorprendenti della campagna di Trump è stata la collaborazione con influencer e content creator come Logan Paul e Adin Ross. Queste partnership hanno portato al voto molti elettori giovani (maschi) e spesso politicamente indifferenti, attraverso piattaforme in cui trascorrono la maggior parte del tempo. Apparendo su live streaming popolari o collaborando con figure di riferimento per le nuove generazioni, il team di Trump ha cercato di generare entusiasmo e influenzare quella parte del voto giovanile che altrimenti sarebbe rimasto distante dalla politica tradizionale. Trump ha sfruttato anche Twitch, piattaforma solitamente legata al gaming, per trasmettere in streaming comizi e discorsi, raggiungendo un pubblico ancora diverso.

Anche la campagna di Harris ha puntato molto sul voto della Gen Z, attraverso il rebranding del profilo ufficiale su X della sua campagna elettorale, ora chiamato KamalaHQ, ha sfruttato trend social e meme per massimizzare la propria portata e creare contenuti facilmente condivisibili. Questi canali, attivi su Instagram, Facebook, X e TikTok, avevano come obiettivo una comunicazione autentica con la Gen Z e i giovani millennial.

La privatizzazione del dibattito pubblico e la manipolazione politica 

Il caso delle elezioni americane evidenzia due questioni fondamentali nella nuova comunicazione politica: la privatizzazione del dibattito pubblico e il rischio di manipolazione favorito dall’ambiente social.  “È la prima volta che il complesso militare digitale (l’alleanza tra i big tech e il potere statuale) si manifesta in modo esplicito e visibile e con dichiarazioni da parte dei soggetti che lo compongono, anche attraverso il supporto economico alla campagna elettorale di Trump” spiega Dario Guarascio, professore di economia e politiche dell’innovazione all’Università Sapienza di Roma, nel podcast “Il Mondo” di Internazionale, “Il caso di X è emblematico: è diventato un agone fondamentale per veicolare comunicazione politica e per vincere le battaglie politiche, il dettaglio è che questo agone è privatizzato e gestito in modo discrezionale da soggetti capitalistici privati”.

 

Quando l’ideologia vince sulla realtà: siamo nell’epoca della post-verità?

Dopo che Zuckerberg ha scelto di consegnare il fact-checking in mano alla comunità di Meta, si è riacceso il dibattito su libertà di parola e censura. Le big tech della Silicon Valley sempre più orientate verso la deregolamentazione.

 

Il grande paradosso del web e dei social media infatti è che, se da un lato nascono come strumenti di democratizzazione dell’informazione, liberi dai tradizionali gatekeeping dei media mainstream, dall’altro sono controllati da poche multinazionali che operano secondo logiche aziendali di profitto. Piattaforme come Facebook, X e Instagram ospitano oggi gran parte del dibattito pubblico, diventando nello stesso momento snodi essenziali della sfera pubblica e agenzie pubblicitarie. Se questi servizi sono gratuiti, è perché il loro modello di business si basa sulla raccolta e monetizzazione dei dati degli utenti attraverso il microtargeting pubblicitario.

Lo stesso principio si può applicare alla comunicazione politica: i dati personali degli utenti possono essere utilizzati per creare messaggi su misura, orientando così le preferenze di voto. Esempio preoccupante è il caso Cambridge Analytica, la società di analisi dati che, lavorando per la campagna elettorale di Trump nel 2016, ha ottenuto da Facebook enormi quantità di dati personali, permettendo di confezionare messaggi di propaganda mirati e influenzando il voto degli indecisi.

La manipolazione sui social: persuasione e disinformazione 

Un altro rischio amplificato dai social media è la manipolazione del dibattito pubblico. Le piattaforme digitali concentrano un enorme potere informativo e sono molto vulnerabili a forme di manipolazione politica. Paola Pietrandrea, professoressa ordinaria di Scienze del linguaggio presso il dipartimento di Linguistica dell’Università di Lille, in “Comunicazione, dibattito pubblico, social media” individua due principali categorie di manipolazione:

  1. Manipolazione persuasiva: questa forma sfrutta la ridotta vigilanza epistemica degli utenti, che si trovano a gestire un’enorme quantità di informazioni in modo frammentario e spesso distratto. La difficoltà di verificare le fonti, la volatilità degli argomenti e la multimedialità dei messaggi creano un contesto in cui la manipolazione risulta più efficace. Strumenti tradizionali di persuasione, come impliciti, metafore e vaghezza, si combinano con tecniche digitali avanzate, come il microtargeting, per influenzare l’opinione pubblica.
  2. Manipolazione disruptiva: invece di persuadere, questa strategia mira a distruggere la fiducia del pubblico nell’informazione stessa. Donald Trump, nel corso della sua carriera politica, ha utilizzato sistematicamente questa tecnica, inondando il dibattito di dichiarazioni contraddittorie, false informazioni e attacchi ai media tradizionali, disorientandolo pubblico. Questo approccio riduce la capacità critica degli elettori e li spinge a votare emotivamente piuttosto che razionalmente.

L’ambiente social, caotico e veloce per natura, favorisce queste dinamiche, rendendo indistinguibile il confine tra comunicazione privata e istituzionale, tra informazione e propaganda. Deepfake, fake news, bot e troll contribuiscono ulteriormente a confondere il pubblico, generando un ecosistema informativo sempre più difficile da decifrare.

Possibili soluzioni, tra educazione e strumenti di controllo

La difficoltà nel gestire la nuova comunicazione politica sui social è che questa è un fenomeno virale e globale, e ogni risposta “centralizzata” risulta inefficace. Solo una risposta multidisciplinare, coordinata e transnazionale può rispondere a questa complessità. Per sviluppare programmi di educazione digitale e di sviluppo del pensiero critico, la linguistica potrebbe fornire risposte concrete, garantendo strumenti per individuare le forme linguistiche e discorsive suscettibili di codificare fenomeni di disinformazione.

In quest’ottica è nato nel 2021 OLinDiNUM, un progetto finanziato dall’Università di Lille e dall’Università di Roma Tre, coordinato dai linguisti Paola Pietrandrea e Edoardo Lombardi Vallauri del dipartimento di Lingue, letterature e culture straniere dell’Università Roma Tre. Il progetto mira a creare le condizioni per fornire un contributo concreto all’educazione e alla sensibilizzazione sul dibattito pubblico digitale attraverso la creazione di un osservatorio transnazionale e la costituzione di una rete multidisciplinare di specialisti del settore.

Un altro strumento recente, riporta Politico, è il “middleware” che potrebbe risolvere il problema relativo alla moderazione dei contenuti sulle piattaforme social. Questo software integrato nelle piattaforme tecnologiche trasferirebbe agli utenti il potere e la responsabilità di moderare e curare la propria esperienza sui social media, offrendo loro una maggiore autonomia nella gestione dei contenuti che visualizzano. Un rapporto pubblicato dalla Foundation for american innovation e dalla McCourt School of public policy della Georgetown University esamina lo stato attuale di questa tecnologia e le possibili implicazioni politiche. Gli autori sottolineano che il middleware potrebbe fornire agli utenti una scelta più ampia riguardo ai contenuti visualizzati, ma avvertono al contempo preoccupazioni legate a una moderazione eccessiva. Gli utenti potrebbero infatti, più di quanto già accada, isolarsi in bolle informative che rafforzano solo le loro opinioni, aumentando la polarizzazione politica e sociale.

Fonte: Sofia Petrarca | FuturaNetwork.eu

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