È in atto un conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina il cui esito potrebbe scatenare una nuova raffica di guerre per procura nel cosiddetto Global South come ai tempi della Guerra fredda. Indicativo è quanto si legge in una nota diffusa dal Ministero del Commercio cinese (Mofcom): «L’aumento unilaterale delle tariffe da parte degli Stati Uniti viola gravemente le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio». Secondo Pechino, la politica del presidente Donald Trump «non solo non aiuta a risolvere i propri problemi, ma danneggia anche la normale cooperazione economica e commerciale tra Cina e Stati Uniti». Sta di fatto che la Cina ha annunciato l’introduzione di nuove tariffe su una serie di prodotti statunitensi, in risposta ai dazi imposti dalla Casa Bianca. Si tratta di un botta e risposta tra le due maggiori potenze economiche mondiali. È evidente che questo confronto è legato al controllo delle materie prime e dei loro traffici commerciali. La valanga di esternazioni e provvedimenti di Trump risponde alla determinazione statunitense di porre delle condizioni ai propri interlocutori. Come l’America Latina, ad esempio, che ha riserve di “terre rare” e “metalli tecnologici” per un totale stimato di 50 milioni di tonnellate, vale a dire circa il 40% di tutta l’offerta globale, in particolare in Colombia, Cile e Brasile. In questa prospettiva i migranti diventerebbero merce di scambio per ottenere concessioni. A questo proposito è bene rammentare che le terre rare, di cui abbondano anche Groenlandia e Ucraina, sono richiestissime dal mercato internazionale. Rappresentano il requisito indispensabile per realizzare un’infinità di prodotti tecnologici.
Si utilizzano, ad esempio, per produrre superconduttori, microchip, magneti, fibre ottiche laser, schermi a colori con importanti proprietà di fotoluminescenza, il tutto con applicazioni non casuali alle tecnologie militari. Su di loro puntano dei settori strategici del comparto industriale del cosiddetto Green Deal, come la chimica verde e l’economia rinnovabile. Sono indispensabili per la produzione di energia eolica, solare e per l’industria petrolifera e petrolchimica. Secondo le informazioni dello Us Geological Survey (Usgs) i Paesi che estraggono più terre rare nel mondo, oltre la Cina che è il primo produttore mondiale e da anni domina il mercato internazionale, ci sono gli Stati Uniti, Myanmar, l’Australia, l’India e la Russia. Ma poiché la produzione di terre rare è destinata ad espandersi, a livello geografico, in quanto sia Stati Uniti che l’Europa vorrebbero rendersi meno dipendenti dalla Cina per la fornitura di questi minerali, l’Africa rappresenta, a detta di molti analisti, la nuova frontiera. Vista la rilevanza delle terre rare negli svariati settori chiave dell’industria tecnologica e soprattutto considerando la crescente domanda che viene dai mercati internazionali per rendere effettiva la transizione energetica, è evidente che a livello internazionale la partita geopolitica è aperta.
Ad esempio, sebbene la Cina sia leader mondiale nel business delle terre rare, dal 2018, ha avviato l’importazione di alcune di esse a causa della forte crescita di domanda interna e anche per ragioni ambientali. Considerando che le maggiori economie mondiali dipendono oggi dalle importazioni cinesi – rispettivamente l’80% e il 98% delle importazioni di Usa e Unione Europea provengono dalla Cina – è scontato che i grandi “player” internazionali faranno di tutto per assicurarsi il business delle terre rare africane. Da rilevare che dietro la crisi congolese che attanaglia attualmente la provincia del Nord Kivu si celano interessi analoghi che rappresentano un fattore altamente destabilizzante dal punto di vista geopolitico. La Repubblica democratica del Congo è la più esposta della filiera globale sia per le riserve di minerali pregiati che possiede che per la bramosia delle compagnie estere che vi gravitano sopra. Qui sono stati avviati con molta fatica tentativi per mettere a sistema e regolamentare le attività estrattive, soprattutto nei siti artigianali che nella sola parte orientale del Paese danno lavoro a più di due milioni di persone. Nel giugno scorso il noto settimanale Jeune Afrique aveva scritto di una partnership tra l’azienda tedesca Minespider e la società congolese Society Artisanal, avviata con l’intento di tutelare le attività minerarie condotte nel Congo in modo da far sì che esse siano conformi agli standard fissati a livello internazionale sulla tracciabilità dell’origine dei prodotti, con particolare riferimento al Regolamento Ue sui minerali provenienti da zone di conflitto, entrato in vigore il primo gennaio 2021.
Ed è proprio su questo versante minerario che dietro le quinte si celano gli interessi cinesi da una parte e quelli statunitensi dall’altra. D’altronde non è un mistero che l’esercito regolare congolese è stato schierato in difesa delle concessioni cinesi, soprattutto di cobalto, mentre i ribelli filo ruandesi del movimento M23 agiscono per conto del governo di Kigali che fin dalla metà degli anni Novanta si è fatto interprete delle istanze della “Pax Americana” nella Regione dei Grandi Laghi. Questo scenario rappresenta un ulteriore segnale della crescente tensione tra Stati Uniti e Cina, che va ben oltre le questioni puramente commerciali. Le nuove tariffe cinesi, infatti, non rappresentano solo una risposta ai dazi imposti da Trump, ma anche una dimostrazione della palese determinazione del governo di Pechino nel difendere il proprio ruolo nella complessa e delicata partita della guerra commerciale globale. Paradigmatico è il caso del Corridoio di Lobito visitato a fine mandato da Joe Biden. Si tratta della ferrovia di 1.700 chilometri per il trasporto delle materie prime dal bacino minerario che comprende l’Angola, il settore meridionale della Repubblica democratica del Congo e lo Zambia. Il progetto, finanziato dagli Usa per quasi un miliardo di dollari, con il sostegno e la piena partecipazione finanziaria dell’Unione europea, purtroppo, è antitetico alla ristrutturazione della ferrovia Zambia-Tanzania, finanziata dalla Cina, con lo sbocco sull’Oceano Indiano.
Naturalmente le materie prime estratte in Zambia, soprattutto il cobalto, partirebbero verso i porti cinesi. Senza il necessario coordinamento queste aree geografiche dell’Africa australe potrebbero trasformarsi in futuro in un terreno di scontro non solo commerciale, ma di una vera e propria guerra per procura, proprio come in passato è avvenuto nelle ex colonie portoghesi di Angola e Mozambico. La situazione è decisamente grave e non a caso papa Francesco, nel recente tradizionale discordo annuale al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha dichiarato che «di fronte alla sempre più concreta minaccia di una guerra mondiale, la vocazione della diplomazia è quella di favorire il dialogo con tutti, compresi gli interlocutori considerati più “scomodi” o che non si riterrebbero legittimati a negoziare».