Ad Asterix devo la mia passione per la lettura. Ne divoravo le avventure e l’immancabile finale con il grande banchetto sotto le stelle e Assurancetourix, il bardo stonato, legato e imbavagliato. Amavo quella gioiosa tavolata a tutta pagina e speravo sempre nel riscatto del cantore confinato nella casa sospesa su un albero. Quella immagine mostrava che la cultura di un popolo si vede da come fa festa, e noi facciamo festa con Sanremo, rito ancora capace (Nazionale di calcio a parte) di unire (anche solo per criticarlo, memarlo o snobbarlo) il Paese.
Ma dove risiede il suo potere festivo? Per Darwin attività come ascoltare o fare musica, non avendo «il minimo utile diretto per l’uomo… devono essere collocate fra le più misteriose di cui è dotato» (L’origine dell’uomo). Ma il mistero è presto detto: l’utile salva l’animale, l’inutile l’umano, e la festa, con i suoi immancabili ingredienti (gioco, musica, rito), è quanto di più necessario alla nostra sopravvivenza, perché è lo spazio-tempo in cui ci sentiamo voluti al mondo e quindi incoraggiati a vivere. La festa rinnova energie personali e legami sociali, perché crea un rapporto con cose e persone non basato solo sui bisogni ma sui sogni. Oggi ne abbiamo più che mai necessità. Ma come la Musica riesce a fare ciò?
E il Festival?
Musica viene da Musa, letteralmente «arte della Musa», come museo è «il posto della Musa». I poeti antichi chiedevano: «Cantami, o Musa», perché, essendo figlia di Memoria e Zeus, sa le cose che contano e che incantano.
Per i Greci la bellezza è capace di rendere presente, nella quotidiana lotta per non morire, ciò che invece è «immortale». In qualche modo tutte le volte che cantiamo o ascoltiamo altri farlo attingiamo a uno strato di vita che dà senso alle incombenze dettate dall’utile e dalla necessità: a quel livello la vita è gratuita, libera, giocosa. E così ci aggrappiamo a Sanremo perché è quel che ci resta della gioia del villaggio riunito a festeggiare. Una cura dalle facce serie e tese della politica e da quelle disperate della cronaca, perché solo le persone felici cantano (e quelle brave a farlo incantano). Chi è dis-incantato, lo dice la parola, ha perso il canto della vita, invece, come scriveva Ungaretti: «Chi è nato per cantare/ anche morendo canta» (Proverbi).
La musica, insieme al rito e al gioco, manifesta, nelle culture di tutti i luoghi e tempi, la vocazione umana: celebrare il dono della vita e condividerlo. Da 75 anni Sanremo, nato dalle macerie della guerra, volenti o nolenti, ci ricorda che senza festa sopravviviamo, perché è la festa che dà senso al nostro essere vivi e insieme. Si canta, con più o meno autenticità e arte, ogni cosa della vita: la morte e la nascita, l’amore e il disamore, il dolore e i sogni, per sapere che tutto questo è «musica per le nostre orecchie», proprio tutto. La Musa ci ispira: «Ricordati di vivere», facendoci attingere al pozzo dove la nostra energia, esaurita dal quotidiano insensato da fare, ritrova respiro e desiderio. Ci vuole la cicala tanta quanto la formica. Infatti in questo tempo di vite angosciate e isolate, la musica è dappertutto, con perenni sottofondi più o meno gradevoli, come pro-memoria che c’è altro.
Ma chi ascolta oggi la musica senza fare altro? E perché è così raro? Perché, come per il vino, c’è chi ascolta per dimenticare, si ubriaca e crolla, e c’è chi lo fa per ricordare, gusta, condivide e lotta. Quando siamo de-motivati chiediamo sempre «motivi»: alla Moda o alla Musa? Possiamo accontentarci di tormentoni costruiti su ciò che la psicologia chiama «earworms», tarli da orecchio, motivetti che rodono il cervello perché basati sul meccanismo della ricompensa immediata e ripetuta tanto da farci dimenticare la realtà attorno a noi: «Canta che ti passa». Se invece vogliamo ricordare quanto la vita sia grande nei suoi due linguaggi, bellezza e dolore, dobbiamo rivolgerci alla Musa, che ci offre «motivi» veri per vivere e non «motivetti»: «Canta che ti appassioni». Canzoni per dimenticare o per ricordare? Luigi Tenco si tolse la vita (c’è chi dice che fu ammazzato perché voleva rivelare il giro di scommesse che pilotava le canzoni…) proprio durante un Festival, nel 1967. Prima di salire sul palco disse a Mike Buongiorno: «Vado fuori, canto e poi ho chiuso con la musica leggera».
La Moda è leggera, non nutre, la Musa sfama e dà energia, e così anche nel teatrino del successo di massa guidato da case discografiche e algoritmi, a Sanremo c’è chi sparisce presto con la sua leggerezza, perché è figlio della Moda, e chi resta, perché lo è della Musa. I nomi dei primi evaporano rapidamente, quelli dei secondi no, perché la loro musica de-canta nel cuore, e lì rimane. Quante canzoni non pervenute o sconfitte al Festival se ne infischiano delle cervellotiche regole del voto sanremese… Come in tutte le cose sta a noi riconoscere e scegliere chi ce la canta e ce la suona, perché la posta in gioco è alta. Qual è? Provate qualche volta, alla sera, a trovare un’ora, magari in famiglia o con amici, per ascoltare insieme «l’arte delle Musa», ognuno propone una pezzo e spiega il perché, e poi solo ascolto: quanti ricordi, sogni, paure ascolteremo, quanta vita libereremo dalla solitudine e dal silenzio. Magari c’è ancora qualcuno che suona uno strumento e intona un pezzo che ha superato la prova del tempo, o addirittura si improvvisa un nostalgico karaoke. Ci scopriremo più uniti e felici, perché per vivere bisogna far festa, e per far festa ci vuole un «motivo» vero, non basta il «sottofondo» presto dimenticato, ci vuole il «profondo» che tutti ricordano.
Sappiamo quali sono i nostri dieci motivi di fondo? E quali quelli delle persone vicino a voi? Saperlo significa molto più di quanto crediamo, come racconta lo psichiatra e scrittore Oliver Sacks in Musicofilia, in cui indaga il mistero della musica attraverso alcune patologie. Un suo paziente, Clive Wearing, noto musicista e musicologo inglese, era stato colpito da totale amnesia per una encefalite. Non ricordava nulla se non i pezzi che eseguiva ancora con sicurezza e trasporto. Come era possibile? La risposta è affascinante e illumina il mistero su cui si interrogava Darwin: «Clive, incapace di ricordare o anticipare gli eventi a causa dell’amnesia, è tuttavia in grado di cantare e suonare e dirigere la musica perché ricordare la musica non è affatto un ricordare nella comune accezione del termine. Ricordare la musica, ascoltarla o suonarla ha luogo interamente nel presente… Ogni melodia ci mostra che il passato può esistere senza essere ricordato e il futuro senza essere previsto».
La musica ci regala il qui e ora, ci impedisce di fuggire nel passato o nel futuro ma, in quanto arte di curare il tempo, fa accadere la vita, immergendoci nel presente che oggi facciamo così fatica a vivere, sempre altrove, sempre insoddisfatti.
Solo un’altra cosa oltre alla Musica ci riesce, e la rivela al dottor Sacks, Deborah, la moglie del suo paziente smemorato: «È in quel suo sentirsi a proprio agio nella musica e nell’amore per me, che Clive trascende l’amnesia e trova un continuum: non è la fusione lineare di un momento dopo l’altro, né si basa su un qualsiasi contesto autobiografico; invece, è il luogo in cui Clive, e tutti noi, siamo alla fine: il luogo dove tutti noi siamo quelli che siamo». Amore e Musica ci regalano il «presente eterno», il luogo in cui siamo sempre «alla fine», cioè talmente veri e vivi da sconfiggere il passare del tempo. Chi ha Amore e Musica ha già tutto.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it