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Crisi dell’Homo Diplomaticus?

Se guardiamo alle numerose crisi che affliggono il pianeta terra, sovente degenerate in violenza bellica, è giocoforza riconoscere che l’Homo Diplomaticus è in seria difficoltà. Il negoziato come strumento d’elezione per risolvere le controversie tra Stati appare in affanno.

L’impiego della forza nelle relazioni interstatuali è insopprimibile. Manca, nell’ordine internazionale, una autorità monopolista della forza e dotata di poteri realmente coercitivi. Anche nei casi sempre più rari in cui i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riescono a trovare delle intese, queste trovano seguiti deboli e di scarsa efficacia concreta. Il governo mondiale è una utopia destinata a rimanere tale. Inseguirla, a scapito di un sano realismo, peggiorerebbe le cose.

Kissinger, in un suo saggio, ammoniva che è impossibile raggiungere un obiettivo per via negoziale se la controparte non percepisce che, in caso di fallimento della diplomazia, lo stesso risultato potrebbe essere perseguito con l’impiego della forza. Questa massima in primo luogo riafferma che, per riuscire, bisogna trattare da posizioni forti e credibili. Ma corrobora anche la teoria di Clausewitz sulla relazione tra azione politica e guerra che, a ben vedere, vale altresì in senso inverso.

L’uso della forza risulta dunque una costante nelle dinamiche tra Stati allorché il soddisfacimento di obiettivi ritenuti vitali, talvolta in base a calcoli e interessi perversi, non sia raggiungibile per via diplomatica. Il mondo contemporaneo ne offre molti esempi. Perché oggi siamo in questa pericolosa situazione?

A parere prevalente degli osservatori, il momento topico è stato il collasso della Unione Sovietica, che ha posto fine all’equilibrio bipolare USA-URSS. Allo scongelamento dell’ordine post-bellico, dopo la breve euforia di chi aveva intravisto un mondo sotto il benevolo dominio USA e con il trionfo dei valori liberal-democratici, altri paesi, che seppero cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione e dalla apertura di inediti spazi di manovra politico-diplomatica, svilupparono il loro potenziale di crescita, economica e politica, e iniziarono a pretendere un ruolo da protagonisti della diplomazia mondiale.

Ha cominciato a prendere forma il multipolarismo, con Stati Uniti e Cina dominanti, ma avversari e in competizione, e la Russia come terza gamba in virtù del suo arsenale nucleare. Altre potenze, quali India, Brasile, Sud Africa, ma anche paesi ben ancorati al campo occidentale, si pensi al Giappone o ai conati verso la cosiddetta autonomia strategica della UE, promuovono, con modalità e obiettivi diversi, una governance mondiale più aderente ai supposti nuovi equilibri di potere.

In questo contesto, essenzialmente fragile, si colloca l’aggressione russa all’Ucraina che costituisce una dura sfida alla legalità internazionale basata sui principi delle Nazioni Unite e che, con drammatica forza di rottura, segnala l’insoddisfazione di Mosca per il suo ridotto status post-sovietico di cui addebita la responsabilità a Washington e alla Nato. Nel post-guerra fredda sono inoltre venuti meno i freni che contenevano le guerre nelle aree un tempo periferiche del pianeta.

Un quadro, dunque, rischioso e instabile in cui non si intravede una nuova governance che, senza l’illusione di eliminare i conflitti, ne faciliti il componimento o li contenga, e si ispiri a principi condivisi. Si capisce che si guardi anche a culture diplomatiche e metodi del passato, in particolare, con una generalizzazione, alla politica dell’equilibrio che ebbe il suo apice al Congresso di Vienna per organizzare la Restaurazione, dopo lo sconquasso napoleonico, e che, con alterne vicende, resse l’Europa, allora centro del mondo, sino alla prima guerra mondiale. Henry Kissinger, nel suo celebre La Diplomazia della Restaurazione, ha offerto il quadro teorico più completo di questo approccio.

In che limiti sarebbe possibile traslare quello stile diplomatico e quei principi generali all’oggi? Il mondo contemporaneo poco o nulla ha a che fare con il passato anche relativamente prossimo. La virtù che attira, e che si vorrebbe riportare in auge anche nelle parole di Papa Francesco, è la moderazione nella gestione delle controversie, ancorché sfociate nella violenza bellica. La politica dell’equilibrio, in generale, tendeva a comporre le crisi in uno sbocco che accontentava o scontentava, in diverso grado, tutte le parti coinvolte. Questo implica, sul piano del metodo, che ciascun attore mitighi i propri obiettivi e sia aperto, se non a concedere, ad analizzare le sensibilità e gli interessi della, o delle, controparti. Insomma, una diplomazia che non miri al risultato ottimale, a qualunque costo, a vantaggio di soluzioni più stabili perché legittimate dal fatto che i vincitori e i vinti si possono acconciare ad esse. Guerre e crisi ci saranno sempre, ma si possono limitare i danni e abbreviare le sofferenze. Tuttavia, bisogna fare i conti con la realtà contemporanea.

I Capi di Stato o di Governo non sono più i Sovrani strettamente imparentati tra loro che conducevano la diplomazia ottocentesca, epoca d’oro del Balance of Power. Essi si davano spesso guerra ma, soddisfatti alcuni obiettivi, erano disponibili ad un componimento da cui ripartire nelle loro relazioni reciproche. I diplomatici di professione a loro volta parlavano lo stesso linguaggio, si conoscevano tra loro e godevano di ampi mandati dai loro Sovrani o Ministri.

Al di là di questo aspetto, che potrebbe sembrare secondario, la rinuncia al perseguimento dell’optimum anziché del buono è ostacolata dalla forte caratura ideologica, quando non etnica o religiosa, di gran parte delle crisi e delle guerre contemporanee. Anche il carattere valoriale, se non palingenetico, che sempre più le guerre tendono ad assumere, con la demonizzazione dell’avversario di cui non si tenta nemmeno di interpretare le percezioni o le paure, portano alla estremizzazione degli scontri. È decisivo anche il peso dello scrutinio dei Parlamenti e, ancor più, delle opinioni pubbliche, mobilitate in maniera parossistica per averne l’appoggio. A esse i leader debbono rispondere dei risultati, pena il rischio di perdere il potere nel caso le deludessero. Opinioni pubbliche fortemente orientate dai social media, e di conseguenza sfuggenti alle influenze più istituzionali. Taluni rimpiangono la segretezza della diplomazia di gabinetto di un tempo, che non può ritornare.

In conclusione, poiché questi condizionamenti appaiono ineliminabili nel mondo moderno, appare realistico immaginare che l’instabilità globale potrebbe cominciare ad attenuarsi allorché la transizione che viviamo sarà conclusa e diverranno più chiari i contorni e gli equilibri di un multipolarismo ancora in divenire. In quel momento, dovrebbe diventare inevitabile adattare il paradigma della competizione e dello scontro a vantaggio di un sistema, che non eliminerà le tensioni e i conflitti, ma sperabilmente ne permetterà una gestione meno violenta e pericolosa, sia a livello globale che regionale.

Fonte: Giancarlo Aragona* | Lisander.com

*Ambasciatore

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