Un’anziana madre peggiorata dopo il Covid e ricoverata. Poi la scoperta che anche in Lombardia gli ospedali non sono attrezzati e il personale non è informato sulle prestazioni cliniche dovute
«Cure palliative? Non siamo attrezzati. Ma poi, perché le chiede? Sua madre non è in punto di morte…». Profondo nord, la Lombardia è il “fiore all’occhiello” della Sanità italiana, si dice… Ma pur sempre “a macchia di leopardo”. E così, se càpiti nella macchia sbagliata, anche in Lombardia ti toccano le sofferenze, quelle che rendono la malattia invivibile e la morte indignitosa. Lo denunciamo da tempo su Avvenire, e ora lo abbiamo vissuto. L’Italia sfoggia da 15 anni la legge 38/2010 sulle cure palliative, all’avanguardia quanto inapplicata e, quel che è peggio, sconosciuta a molti medici. E questo è imperdonabile.
Chiariamo subito il concetto principale: le cure palliative non si attivano (necessariamente) in prossimità della morte ma durante la vita, per mesi, anche per anni, allo scopo di curare i sintomi di una malattia (inguaribile, che non risponda più ai trattamenti specifici). Un esempio: il malato di Sla non sta morendo, può durare anni, durante i quali ha estrema necessità di terapie farmacologiche, strumentali, psicologiche, riabilitative, spirituali. Se non le riceve, la sua vita è un inferno. Altri esempi: il grande anziano, un ragazzo rimasto in stato di minima coscienza dopo un incidente, un adulto con demenza, un bambino nato con grave disabilità, sono tutte persone non terminali ma che senza la protezione palliativa soccomberebbero alla complessità dei sintomi. Crediamo sia ovvia per tutti la differenza tra l’affrontare la malattia disperandosi per il dolore e invocando la morte o invece ricevendo da un’équipe multiprofessionale le cure che affrontano globalmente tutti i bisogni della persona ammalata e supportano i familiari. In pratica la legge 38 è la risposta concreta alle istanze eutanasiche: dal 2010 per legge il paziente ha diritto a vivere e a morire mantenendo la migliore qualità possibile della propria esistenza.
Lo dice la parola stessa: in latino il pallium è il mantello, la protezione avvolgente, che “abbraccia” il malato nei suoi bisogni fisici, psicologici, spirituali, sociali.
Secondo concetto fondamentale: le cure palliative (e la terapia del dolore, che ne fa parte) non guariscono una malattia, ne governano solo i sintomi. In altre parole, se ho un tumore non me lo risolvono ma eliminano la sofferenza che ne deriva.
Torniamo allora al nostro ospedale lombardo e alla richiesta che ci era sembrata logica, avendo ricoverato una madre di 98 anni per scompenso cardiaco e lieve infezione polmonare dovuta a un Covid non troppo aggressivo (diagnosi ricevuta l’8 dicembre al pronto soccorso). La sera prima, sant’Ambrogio per i milanesi, aveva seguito alla tivù la Prima della Scala cantando a memoria l’opera dall’inizio alla fine, musica e libretto. Una settimana dopo era una donna distrutta dalle sofferenze, che invocava la morte e riassumeva il suo nuovo stato con una sola parola, “scempio”. In mezzo cos’era accaduto? A quell’età è frequente che il ricovero prolungato provochi un delirium dovuto a spaesamento, posizione dolorosa nel letto, mancanza delle proprie abitudini, immobilità… Invano ha supplicato dal primo giorno di essere messa a sedere come avveniva a casa, dove bastava la sua poltrona per eliminare i dolori lancinanti che altrimenti lo stare distesa le avrebbe causato. Non a caso, delle cure palliative fanno parte anche operazioni banali e richieste facilmente accontentabili, come scegliere la posizione giusta. Chi di noi resisterebbe giorni in una posizione dolorosa? Le abbiamo portato da casa la sua poltroncina, ma nonostante la nostra presenza 24 ore su 24 ha dovuto resistere supina giorni e notti, “non ci prendiamo la responsabilità”. La vedi piangere e lamentarsi, tu sai cosa basterebbe fare ma nessuno ti dà retta: sei “solo” il familiare. E comunque con i medici è un’impresa parlare. Cito dal sito della Federazione italiana Cure palliative: «Stimolare il paziente a muoversi è molto importante sul piano psicologico ed è utile per mantenere le capacità funzionali e cognitive, prevenire complicanze da immobilità e ridurre la sintomatologia dolorosa…». Sarebbe bastata qualche ora in poltrona, e magari un fisioterapista che le muovesse gli arti. A letto anche i polmoni soffrono, e parte la polmonite. Per nostra mamma è iniziato il precipizio e contemporaneamente il nostro senso di impotenza di fronte alla sua disperazione.
Ma cosa la faceva stare tanto male? Qual era il motivo scatenante? L’iter delle cure palliative prevede che prima si individui la causa della sofferenza e poi si agisca di conseguenza: se ad esempio il dolore è fisico occorreranno antidolorifici e cambi di posizione, se invece è psicologico saranno necessari farmaci psichiatrici, eccetera. Abbiamo chiesto fin dall’inizio il colloquio con il palliativista (la normativa della Regione Lombardia dal 2016 lo garantisce «entro 48 ore dalla richiesta dei familiari»), lo abbiamo ottenuto dopo due settimane e a forza di insistenze. «Sua madre non è terminale, a cosa serve il palliativista?», ci dicevano i medici, come fosse una nostra fissazione. Una volta spiegato (noi a loro) che serve per vivere bene quel che le resta, non per morire, la risposta è stata «non siamo attrezzati». A 15 anni dalla legge 38 che definisce «le cure palliative e la terapia del dolore obiettivi prioritari del Piano sanitario nazionale» e ne garantisce «l’accesso in tutti gli ambiti assistenziali perché la sofferenza non è più un aspetto inevitabile ma una dimensione che va affrontata con serietà in tutte le fasi della vita» (sempre dal sito www.fedcp.org), tale risposta non è accettabile. Ancor più perché un ottimo reparto di medicina palliativa in realtà c’era, dislocato nel vicino ospedale della stessa Azienda sanitaria, a 7 chilometri di distanza. Dove infatti il 24 dicembre ci hanno finalmente indirizzati per il tardivo consulto con i palliativisti: medici competenti, umanissimi, appassionati. Ma immobilizzati da una burocrazia kafkiana, «non possiamo visitare sua madre, per legge dovremmo farlo, ma non abbiamo l’autorizzazione». Di chi? «Dell’Azienda sanitaria».
Sono molti anni che ad Avvenire i palliativisti spiegano che «in Italia veniamo coinvolti solo quando il paziente sta morendo: allora ci chiamano per sedarlo». E prima? «Lo si lascia soffrire. La classe medica non è preparata, all’università non si studia quasi nulla sulle cure palliative e i corsi di aggiornamento previsti dalla legge per tutto il personale curante non si realizzano se non in rari casi»… Tutto ciò che c’è prima della “sedazione terminale”, dunque, non esiste.
Quando per nostra madre, infine, la sofferenza non è stata più gestibile, dosi minime di morfina l’hanno sopita, almeno è spirata senza più gridare allo “scempio” (anche se per noi ha significato perdere ogni contatto con lei dal giorno di Natale fino alla morte, il 29 dicembre). La sedazione terminale non abbrevia la vita e non è eutanasia, è un diritto inalienabile, ma lo erano anche le fasi precedenti della palliazione, che a lei sono state negate – non per dolo ma per ignoranza, chissà cosa è peggio – e che sicuramente le avrebbero permesso una miglior qualità di vita nelle ultime settimane: alla fine, dal Covid era guarita, i polmoni risultavano “puliti”, dell’ossigeno non aveva più bisogno, i valori dello scompenso erano “molto migliorati”. Di cosa è morta nostra madre? Ma soprattutto come? Avere 98 anni è motivo sufficiente per giustificare una morte inutilmente dolorosa? A chi di noi piacerebbe morire in questo modo?
Fonte: Lucia Bellaspiga | Avvenire.it