Mentre i ribelli del M23 avanzano, Burundi e Sudafrica abbandonano il governo di Felix Tshisekedi e l’Unione africana evita di condannare il Ruanda. La Chiesa cerca di correre ai ripari
Dopo la presa di Bukavu fra il 15 e il 16 febbraio da parte dei ribelli del M23, spalleggiati dalle forze armate ruandesi, il destino del governo di Felix Tshisekedi, il presidente della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) rieletto poco più di un anno fa, sembra sempre più appeso a un filo, e con esso la stabilità del più grande paese dell’Africa sub-sahariana, esteso otto volte l’Italia.
Istituzioni del Congo al collasso
A far temere un collasso delle istituzioni centrali congolesi non sono soltanto le sconfitte militari in serie delle sue forze armate: nel giro di poco più di un mese i ribelli sono avanzati di 200 chilometri lungo una direttrice che va dall’estremo nord del Kivu, dove il 4 gennaio è stata conquistata la località di Masisi, che conta 40 mila abitanti, fino alla città di Bukavu, che conta oltre un milione di residenti, l’ultima sulla sponda congolese del lago Kivu, passando per la presa di Goma (quasi due milioni di abitanti) il 28 gennaio scorso.
Ora tutta la sponda occidentale del grande lago (sette volte quello di Garda) che separa la Rdc dal Ruanda è sotto il controllo dei ribelli. Più preoccupante di questo per le autorità di Kinshasa è il fatto che il suo esercito (le Fardc) ha evacuato Bukavu senza combattere e che le alleate forze armate burundesi, che si erano battute senza fortuna nella difesa di Goma e che sembravano garantire la sicurezza di Bukavu, hanno anch’esse sgombrato il campo e probabilmente si disimpegneranno definitivamente dal conflitto in corso.
Burundi e Sudafrica si sfilano
Come scrive il sito online della rivista Africa, il presidente burundese «Evariste Ndayishimiye ha confidato sui social network di aver ricevuto rassicurazioni dal suo vicino sul fatto che il Ruanda non avrebbe attaccato il Burundi. Le truppe burundesi si sono quindi ritirate e Tshisekedi ha perso un potente alleato militare nel Sud Kivu».
Anche il Sudafrica pare intenzionato a ritirare le sue truppe, presenti nel Kivu nel contesto di una missione dei paesi dell’Africa australe a sostegno del governo congolese, dopo aver perduto 14 uomini nella battaglia per Goma.
L’Ue condanna il Ruanda
La seconda fonte di preoccupazione per il governo di Kinshasa sta nelle reazioni a livello internazionale. Il presidente congolese ha invocato l’imposizione di sanzioni economiche al Ruanda, ma finora solo il Parlamento europeo ha raccolto il suo grido di dolore, mentre l’Unione africana (Ua) e i singoli paesi del continente mantengono un silenzio imbarazzato sull’argomento.
Prima ancora della presa di Bukavu gli eurodeputati hanno votato a grande maggioranza una mozione per chiedere la sospensione di tutti i protocolli firmati dalla Ue con Kigali (sfruttamento sostenibile delle materie prime, assistenza militare e di sicurezza). Gli stessi «chiedono inoltre alla Commissione, agli Stati membri dell’Ue e alle istituzioni finanziarie internazionali di congelare il sostegno diretto al bilancio per il Ruanda fino a quando non consentirà l’accesso umanitario all’area di crisi e romperà tutti i legami con l’M23». Fra i paesi europei, il Belgio era sul punto di bloccare i propri aiuti allo sviluppo destinati al Ruanda, ma quest’ultimo lo ha anticipato sospendendo il programma bilaterale 2024-2029.
Il Parlamento europeo ha denunciato «l’occupazione di Goma e di altri territori nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) da parte dei ribelli dell’M23 e delle forze di difesa ruandesi in quanto violazione inaccettabile della sovranità e dell’integrità territoriale della Rdc». Invece nei documenti delle numerose istanze africane che si stanno occupando della crisi del Kivu, e principalmente in quelli dell’Unione Africana, il Ruanda non è mai chiamato per nome.
L’Unione africana nicchia
Mentre dopo la presa di Goma l’Onu, gli Stati Uniti, la Cina e l’Unione europea avevano chiesto a Kigali di ritirare le sue forze dalla regione e di cessare le ostilità, l’Unione africana si era limitata a chiedere il «pieno rispetto» dell’«integrità territoriale della Rdc», senza menzionare il Ruanda. Il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana, riunito alla vigilia del summit dell’Ua ad Addis Abeba, ha concluso i suoi lavori con un comunicato nel quale si pronuncia a favore dell’integrità territoriale del Congo e al punto 3 «condanna inequivocabilmente le attività del M23 e dei suoi sostenitori», senza ulteriori precisazioni, mentre al punto 6 «chiede l’immediata ripresa dei negoziati e del dialogo con tutti gli attori statali e non statali, militari e non militari, incluso l’M23, nel formato dei Processi di Luanda e di Nairobi».
I Processi di Luanda e di Nairobi sono i due tavoli negoziali dove Tshisekedi discute rispettivamente il contenzioso del Congo col Ruanda e quello del governo di Kinshasa coi gruppi armati ribelli interni, attivi soprattutto nelle regioni orientali del paese. Il presidente e il suo governo da sempre martellano che sono disposti a negoziare con tutti i dissidenti, tranne che col M23, movimento qualificato come terrorista e marionetta del Ruanda. Come può accadere che nei documenti della Ua non siano mai menzionate le responsabilità del Ruanda mentre si invita il governo della Rdc a fare quello che da anni dichiara di non essere mai e poi mai disposto a fare?
Tshisekedi è un disastro
Certamente per il modo maldestro con cui Tshisekedi sta gestendo i suoi rapporti internazionali: non ha partecipato né al summit congiunto sulla crisi del Kivu della Comunità degli Stati dell’Africa orientale (Eac) e della Comunità degli Stati dell’Africa australe (Sadc) del 6-7 febbraio, né alla riunione del Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana. Il presidente ruandese Paul Kagame, invece, ha partecipato in prima persona a entrambi i vertici, mentre Tshisekedi aveva scelto di recarsi a Monaco alla Conferenza sulla sicurezza. Di lì è ripartito in anticipo alla notizia della presa di Bukavu. L’impressione è che gli stati africani non vogliano compromettersi al di là delle formule di circostanza, dubitando che gli assetti di potere nella Rdc restino a lungo quelli attuali.
Il terzo motivo di preoccupazione per Tshisekedi sta nel fatto che anche personalità e istituzioni congolesi si stanno muovendo come se l’avvento al potere dei ribelli sponsorizzati dal Ruanda fosse in qualche modo ineluttabile. Il 13 febbraio il presidente e il segretario della Conferenza episcopale cattolica del Congo (Cenco), il vescovo di Lubumbashi monsignor Fulgence Muteba e monsignor Donatien Nshole, insieme al pastore protestante Eric Senga, segretario della Commissione giustizia e pace della Chiesa di Cristo in Congo hanno incontrato a Goma niente meno che Corneille Nangaa, il coordinatore dell’Alleanza del Fiume Congo (Afc), coalizione di 10 gruppi ribelli comprendente l’M23, condannato a morte in contumacia nell’agosto dell’anno scorso per crimini di guerra.
La Chiesa corre ai ripari per il Congo
Nangaa è stato presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente che nel 2018 certificò la prima vittoria di Felix Tshisekedi alle elezioni presidenziali di quell’anno, e oggi afferma di avere concorso alla manipolazione del voto per far risultare vincitore l’attuale presidente. Al termine dell’incontro il segretario della Cenco, mons. Nshole, ha dichiarato: «Siamo d’accordo sul fatto che possiamo impegnarci con loro per trovare una soluzione pacifica il prima possibile in modo che la guerra finisca. L’Afc/M23 ha un contributo da dare alla costruzione della pace».
Sono battezzati nella Chiesa cattolica la metà dei 102 milioni di abitanti della Rdc, mentre alla Chiesa di Cristo in Congo, che raccoglie le 62 principali chiese protestanti, è affiliato il 20 per cento circa dei congolesi.
Fonte: Rodolfo Casadei | Tempi.it