Nel 1953 il mondo era appena uscito dalla guerra e diviso in due sfere di influenza e deterrenza, americana e sovietica, e Philip Dick (per il provocatorio Carrère, che gli ha dedicato una bellissima biografia, il più grande scrittore del ‘900) pubblicava «I difensori», un racconto in cui l’umanità, impegnata in una guerra tutt’altro che fredda tra Russi e Americani, vive e lavora sottoterra per alimentare lo scontro affidato ai robot in superficie, dove c’è solo un ammasso di macerie tossiche sotto un cielo incolore.
I difensori del titolo sono i «Plumbei», robot intelligenti (le nostre intelligenze artificiali) coperti di piombo anti-radiazioni: combattono e aggiornano gli umani sullo stato della guerra in cui i Russi stanno prevalendo grazie alle mine intelligenti (i nostri droni). Un gruppo di tecnici e soldati americani deve risalire in superficie per risolvere un’anomalia: non è mai accaduto dall’inizio dello scontro a causa della radioattività sostenibile dagli umani solo per pochi minuti. Una volta arrivati su, il gruppo ha però una sorpresa: il mondo là fuori è splendido e nuovo, non c’è la guerra, notizie e immagini che giungevano sottoterra erano create ad arte dai robot con dei modellini.
Perché i difensori hanno agito così? Ci serve saperlo nello scenario odierno.
I robot rispondono come farebbe un’intelligenza artificiale progettata esclusivamente per il bene dell’uomo: «Non appena abbandonaste la superficie, la guerra cessò. Avete ragione, siete stati ingannati. Avete lavorato duro nel sottosuolo, mandando su cannoni ed armi, e noi li distruggevamo non appena arrivavano. Ci avete creati per continuare al vostro posto la guerra mentre voi umani vi rifugiavate nel sottosuolo per sopravvivere. Ma prima che noi potessimo continuare la guerra, era necessario analizzarla per determinare quali ne fossero gli scopi. Scoprimmo che le culture passano attraverso delle fasi. Quando una cultura invecchia e comincia a perdere i suoi obiettivi, sorge un conflitto tra coloro che vorrebbero eliminarla per stabilire dei nuovi modelli culturali e coloro che vorrebbero invece mantenere il vecchio modello con il minor numero possibile di cambiamenti».
È ciò che accade anche oggi in Occidente, nello scontro tra globalizzazione e multipolarismo, tra élite e popolo, tra progressisti e conservatori.
Ma seguiamo l’analisi antropologica del robot: «Il conflitto interno minaccia di coinvolgere la società in una guerra contro sé stessa, gruppo contro gruppo. Le tradizioni vitali possono andare perdute, non solo alterate e riformate, ma distrutte completamente in questo periodo di caos e di anarchia. È necessario perciò che l’odio all’interno di una civiltà venga incanalato verso l’esterno, un gruppo esterno, in maniera che la cultura stessa possa sopravvivere alla sua crisi. La guerra ne è il logico risultato».
Insomma per non distruggersi, ricompattarsi e salvare le strutture che l’hanno costituita come tale (oltre all’economia che ne è conseguenza operativa nella storia umana sono la combinazione di educazione, religione e forme di appartenenza a un gruppo), una cultura divisa preferisce cercare un nemico al di fuori invece di soluzioni nuove alla crisi interna. Vale per popoli, città, famiglie, coppie, singoli: per paura e pigrizia non affrontiamo le ombre ma le proiettiamo fuori, odiando negli altri ciò che non va in noi, convinti che, distrutto il nemico, risolveremo la crisi che invece sarà ancora lì, peggiore di prima, dopo che il fumo della battaglia si sarà diradato.
La logica di ferro, anzi di piombo, del robot prospetta la soluzione: «La guerra, per una mente razionale, è assurda. Ma, in termini di bisogni umani, svolge una funzione d’importanza vitale ed insostituibile. E continuerà a svolgerla finché l’Uomo non sia cresciuto al punto da eliminare totalmente l’odio dentro di lui». I robot confidano in un’evoluzione umana lineare: «In questi otto anni abbiamo osservato importanti mutamenti nella mente degli uomini: la fatica ed il disinteresse stanno gradatamente prendendo il posto dell’odio e della paura. Ma l’inganno deve continuare, almeno per un altro po’. Non siete ancora pronti per la verità».
Robot, creati per proteggere gli uomini, hanno quindi fatto (con un po’ di Imagine) la scelta più logica: interrompere la guerra e preparare la Terra per una umanità nuova.
Per tutta risposta gli Americani vogliono approfittare della scoperta per impadronirsi della Terra prima degli ignari Russi, e così si affrettano a tornare sottoterra, ma i robot hanno distrutto il tunnel di collegamento. Sono quindi costretti a rimanere in superficie dove incontrano proprio un gruppo russo venuto su qualche mese prima. Si preparano allo scontro, ma i robot li fanno ragionare: i Russi sono disarmati e le armi non servono più, per sopravvivere devono non solo smettere di combattersi, ma unirsi e aiutarsi, per procurarsi da vivere: «la necessità di risolvere i problemi quotidiani dell’esistenza vi insegnerà come tirare avanti nello stesso mondo. Non sarà facile, ma ce la farete».
Solo obiettivi di bene comune possono distogliere culture internamente in crisi dalla soluzione bellica, ma i robot ignorano che l’uomo non smetterà mai di proiettare le proprie ombre su un nemico esterno, perché Caino è sempre in noi e cerca sempre un Abele a cui attribuire il proprio male.
Lo storico Emmanuel Todd in «La sconfitta dell’Occidente», proseguendo il suo «Breve storia dell’umanità» e svincolandosi dalla lettura, dominante e riduttiva, della storia in chiave prettamente economica, dimostra che la crisi riguarda le strutture che hanno unito alcuni popoli in quello che chiamiamo Occidente. Oggi infatti, esaurito il collante della sofferenza postbellica, la globalizzazione economica mette in concorrenza le culture che finiscono col ripiegarsi su se stesse. Emergono così gli egoismi nazionali, incarnati da oligarchie di potere che generano la loro controparte: i populismi; la diplomazia è resa inutile dalla logica dei rapporti di forza economici, militari e tecnologici. L’alternativa è creare l’unità su basi più profonde, di impegno comune sulle emergenze: povertà, fame, istruzione, sanità, inquinamento. Come ha detto papa Francesco: «La fame nel mondo finirebbe, se non si fabbricassero armi per un anno», ma questa scandalosa evidenza è considerata alla stregua della fantascienza di Dick: fantasie. Infatti dopo le attuali mosse americane, gli attuali leader dell’UE – invece di riscoprire lo specifico europeo che non è la potenza militare ma una diplomazia che provi a ricostruire un’unità culturale dagli Urali all’Atlantico, come auspicavano e provarono a fare alcuni leader europei alla fine della guerra mondiale e dopo la caduta del comunismo – hanno proposto il riarmo e l’ombrello nucleare di marca francese, togliendo i vincoli di bilancio al debito che peserà ulteriormente sulle future generazioni. Ma all’Europa non basterà un esercito comune per unirsi, così come non è bastata una moneta comune.
Che cosa hanno veramente in «comune» un irlandese, un italiano, un francese, un ungherese, un rumeno… che li spingerebbe a difendere anche con il proprio corpo l’Europa come gruppo vitale di appartenenza? La mancanza di una risposta è la nostra crisi interna.
Di certo se la NATO finirà bisognerà rendersi finalmente indipendenti anche sul piano difensivo, ma questo scenario, per quel che capisco, è tutt’altro che certo. L’antropologo Jared Diamond ha dimostrato, prima in «Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere» e poi in «Crisi. Come rinascono le nazioni», che le civiltà, invece di affrontare le crisi interne, che spesso neanche vedono, prese dalla smania di salvarsi fanno scelte irrazionali con cui invece si danno il colpo di grazia: «Tutti si trovano ad affrontare crisi e spinte al cambiamento: dai singoli individui ai gruppi, alle aziende, alle nazioni, al mondo intero. Per affrontarle positivamente è necessario un processo di cambiamento selettivo: non essendo possibile né auspicabile che individui e nazioni cambino completamente, abbandonando ogni aspetto della loro identità passata, la sfida diventa, tanto per le nazioni quanto per le persone in crisi, capire quali parti della loro individualità stiano funzionando bene e non vadano modificate, e quali necessitino di cambiamento. L’obiettivo è individuare nuove soluzioni in armonia con le capacità e caratteristiche di ciascuno».
È l’occasione di una nuova unità, ma non vedo nelle leadership attuali la capacità di un cambiamento selettivo, ma la coazione a ripetere soluzioni già bollate dalla storia come fatali, soluzioni che, per essere sostenute, costringeranno i nostri figli a lavorare sottoterra se non a combattere sul campo. Lo avevano capito i robot del ’53. Noi?
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it