70 anni fa moriva il premio Nobel per la Medicina: un genio che ha trasformato la casualità in scoperte che hanno salvato milioni di persone. La previsione dell’antibiotico-resistenza: “Un giorno i batteri saranno più forti dei farmaci”
Quando si dice la fortuna. Quella che ha avuto quest’uomo è stata grande, ma sono state la sua curiosità e acutezza d’ingegno a trasformarla in un’opportunità favorevole, mettendola al servizio della comunità. Stiamo parlando di Alexander Fleming, lo scienziato che con la scoperta del primo antibiotico ha cambiato il corso della storia della medicina e dell’umanità intera.
«Decisioni che prendiamo per nessuna particolare ragione, o per ragioni del tutto incongrue oppure decisioni prese da altri possono avere profonde ripercussioni sulla nostra carriera»: queste parole pronunciate in occasione della laurea honoris causa, ricevuta nel 1945 dall’Università di Harvard, qualche mese prima di essere insignito del premio Nobel, rendono l’idea del filo rosso che ha percorso tutta la sua esistenza: la casualità.
Dalla scoperta della penicillina ai rischi dell’antibiotico-resistenza: 70 anni fa moriva il papà degli antibiotici, dopo una vita piena di colpi di scena, che vale la pena raccontare.
Un’infanzia difficile con un colpo di fortuna
Fleming nasce da una famiglia modesta in una zona rurale dello Scozia, a Darval, l’8 agosto 1881, in mezzo a campi sconfinati lontano dai rumori della città. La sua non è un’infanzia facile: perde il padre a 7 anni e dopo il diploma raggiunge i suoi fratelli a Londra in cerca di lavoro, che trova in una compagnia di navigazione dove rimane fino ai 19 anni.
Nel 1901, durante la guerra del Transvaal (l’odierno Sudafrica), si arruola come volontario con i suoi fratelli, ma gli iscritti sono troppi e nessuno dei Fleming riesce a partire per il fronte.
Nel 1902, il primo colpo di fortuna. Alexander eredita 250 sterline dopo la morte dello zio John e grazie al denaro inaspettato decide di lasciare il lavoro e dedicarsi agli studi che gli interessano: vuole diventare chirurgo. Ma quale università scegliere? La decisione ricade sul Saint Mary’s Hospital, che conosceva per aver giocato in precedenza contro la sua squadra di pallanuoto (a detta dello stesso Fleming, una ragione “non molto rilevante”). Così nel 1906 si laurea in Chirurgia.
L’incontro casuale che gli fa cambiare idea
La passione per lo sport segna un’altra tappa fondamentale della vita dello scienziato, di nuovo casuale: dopo la laurea Fleming entra in contatto con John Freeman, un collega che lo convince a costituire nell’ospedale il circolo di tiro a segno, disciplina in cui Alexander eccelleva, oltre alla pallanuoto. Frequentandolo conoscerà Almroth Wrigth, noto batteriologo, creatore del Dipartimento di Inoculazione, che in breve tempo diventerà il suo mentore. Il suo era un piccolo laboratorio, in cui operavano clinici e ricercatori, studiando le vaccinazioni, che già all’epoca erano considerate l’arma vincente contro le malattie che devastavano il pianeta. Fleming, affascinato da questa nuova sfida della medicina, abbandona la chirurgia e si butta a capofitto nella ricerca.
La Grande guerra e l’urgenza dei vaccini
Con lo scoppio del primo conflitto mondiale l’emergenza sanitaria è globale. Difterite, tetano, setticemia, cancrena, infezioni da ferite di guerra: i medici sono chiamati a curare malattie che non sono in grado di affrontare. Fleming segue Wright in Francia a Boulogne-sur-Mer, dove era stato creato un laboratorio dedicato alla somministrazione del vaccino anti-tifo ai soldati dell’esercito, oltre che alla ricerca. Ormai la missione era solo una: distruggere il batterio e salvare l’ospite, combattere l’infezione e guarire l’uomo.
Il raffreddore e la lacrima felice
È il 1922: Fleming, molto raffreddato, decide di utilizzare il proprio muco nasale per un esperimento. Lo mette in coltura su alcune piastre da laboratorio, con l’intento di far sviluppare qualche microbo, ma – come spesso accade quando si ha il naso chiuso – i suoi occhi lacrimano: e proprio una lacrima cade su una piastra di coltura. Lì per lì il fatto non sembra rilevante, ma dopo qualche settimana lo scienziato nota che i batteri sono cresciuti dappertutto tranne che nel punto della lacrima: in essa esiste quindi una sostanza antibiotica naturale.
Fleming scopre così un enzima, che chiamerà “lisozima”, cioè “scioglitore”, in grado di sciogliere appunto le pareti che rivestono i batteri, indebolendone la carica infettiva.
La scoperta però ha i suoi limiti: da una parte manca il personale esperto per svilupparla (chimici e biochimici), dall’altra l’enzima è efficace solo verso i batteri innocui, non contro quelli patogeni, portatori di malattie.
Da una svista la muffa salva-vita
Nel 1928 – quando tutti i laboratori del mondo studiano il virus dell’influenza, dopo i milioni di vittime della “spagnola” del 1918 – il caso viene in aiuto dello studioso ancora una volta: mentre è in vacanza nel Suffolk con la famiglia (la moglie e il figlio Robert) viene raggiunto dalla notizia della nomina a professore di Biologia all’Università di Londra. Decide così di tornare nella capitale e passa dal laboratorio a controllare le piastre che aveva lasciato in coltura. Tra queste ne nota una rimasta aperta per sbaglio: all’interno della muffa blu-verdastra che si è formata c’è una zona bianca, un buco di batteri, in cui le colonie di Staphylococcus aureus sono assenti. In quell’istante Fleming si ricorda della lacrima del 1922, ma comprende che questa volta la scoperta è di portata ben più grande. «Quando mi sono svegliato subito dopo l’alba, quel 28 settembre 1928, non avevo certo intenzione di rivoluzionare tutta la medicina scoprendo il primo antibiotico al mondo, o killer di batteri. Ma suppongo che sia esattamente quello che ho fatto», dichiarerà alcuni anni più tardi.
Era nato il primo antibiotico: la muffa, del genere Penicillium (che significa “pennello”) aveva prodotto una sostanza antibatterica, e per questo verrà chiamata “penicillina”.
1940: il mondo ha bisogno della penicillina
È ancora presto però per cantare vittoria: la penicillina è difficile da estrarre, viene eliminata velocemente dal corpo e inizialmente si riesce a produrla solo in bassi dosaggi. Il mondo invece ne ha bisogno, e ancora una volta mancano i chimici per produrla in laboratorio.
La seconda guerra mondiale, nella sua tragicità, porterà una svolta nello scenario della ricerca. Con l’approvazione delle leggi razziali, molti ebrei tedeschi fuggono dalla Germania: tra questi c’è Ernst Boris Chain, farmacologo e biochimico, che raggiunge Oxford e insieme all’anatomopatologo australiano Howard Florey e altri ricercatori (chiamati “i ragazzi di Oxford”), decide di portare avanti gli studi di Fleming.
Con lo scoppio del conflitto la richiesta di penicillina cresce in maniera esponenziale: è necessario produrla su larga scala per far fronte alle infezioni dilaganti che colpiscono soldati e civili. A scuotere l’opinione pubblica, con un articolo pubblicato sul Times, sarà la guarigione definita miracolosa di un amico di Fleming, affetto da meningite e curato con il nuovo antibiotico.
Il Regno Unito è costretto a chiedere aiuto agli Stati Uniti e le case farmaceutiche uniscono le forze per mettere in comune le conoscenze e gli strumenti di ricerca, con un unico scopo: la produzione di massa. La strada però non è semplice e ci vorrà tempo prima di individuare un metodo soddisfacente per isolare le muffe in grandi quantità. E a riuscirci sarà una donna.
Da un melone la muffa perfetta
Il suo nome è Mary Hunt, una delle 130 donne impiegate nella ricerca della “muffa perfetta”. Siamo nel 1941: la microbiologa e batteriologa americana, mentre fa un giro al mercato, rimane colpita da una muffa dorata sopra un melone. Un altro caso fortunato: si tratta di Penicillium crysogenum, un fungo che produce penicillina dieci volte più di ogni altro. La scoperta della ricercatrice, da allora soprannominata “moldy Mary” (muffosa Mary), dà il via alla produzione su larga scala di antibiotici, destinati a salvare molte vite in tutto il mondo.
La storia narra che lo stesso primo ministro inglese Winston Churchill guarì dalla polmonite grazie alla penicillina, riuscendo così a partecipare alla conferenza di Casablanca del 1943; così come la cantante e attrice Marlene Dietrich sopravvisse a una polmonite grave curandosi con l’antibiotico, mentre era in tournée per le truppe anglo-americane, a Bari nel 1944.
Dopo il Nobel un nuovo amore
Terminata la guerra, Alexander Fleming ha compiuto la sua missione, raggiungendo l’obiettivo che si era prefissato: trovare una cura universale per le infezioni. A coronamento del suo successo nell’ottobre 1945 arriva il riconoscimento più grande, il premio Nobel per la Medicina, assegnato allo scienziato insieme agli altri due “ragazzi di Oxford” Chain e Florey.
Dopo alcuni anni bui, segnati da due lutti molto dolorosi (la morte del suo mentore Almroth Wright nel 1947 e della moglie nel 1949), Fleming torna al suo lavoro al Dipartimento di Inoculazione, di cui aveva assunto la direzione.
Un nuovo capitolo sta nuovamente per aprirsi nella sua vita: nel team dei ricercatori che collaborano con lui grazie alle borse di studio del British Council c’è la greca Amalia Voureka, specializzata nello studio della resistenza dei batteri. La sua intelligenza e bellezza non sfuggono ad Alexander: i due collaborano a lungo in perfetta sintonia, tanto che – quando si incontreranno nuovamente ad Atene nel 1952 a una conferenza internazionale – lui le dichiarerà il suo amore, sposandola l’anno dopo, incurante dei 30 anni di differenza.
L’eredità: combattere l’antibiotico resistenza
Alexander Fleming muore all’improvviso, per un attacco di cuore, l’11 marzo 1955 a Londra. Quella che lascia è un’eredità pesante: non solo le sue intuizioni derivate da un intelletto brillante e mai sazio di conoscenza, ma anche la responsabilità di fare un buon uso dei risultati delle sue scoperte.
Dopo la penicillina, saranno molti gli altri antibiotici identificati dalla comunità scientifica: streptomicina, tetracicline, cefalosporine. La sfida con cui facciamo i conti oggi, però, è l’antibiotico resistenza, definita dall’Organizzazione mondiale della sanità “la più grande minaccia globale per la salute umana”. In pratica è la capacità sviluppata dai batteri stessi di opporsi ai farmaci che dovrebbero annientarli, e spesso sono proprio i microbi a vincere la battaglia.
«Quello della resistenza è un fenomeno legato all’evoluzione, quindi in un certo senso naturale e inevitabile», commenta Fabrizio Pregliasco, professore di Igiene all’Università degli Studi di Milano, direttore sanitario dell’ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio di Milano. «La necessità di produrre gli antibiotici ad alti dosaggi e l’uso successivo che ne è stato fatto hanno però peggiorato la situazione. Da una parte il ricorso massiccio a queste molecole negli allevamenti, dall’altra l’utilizzo scorretto anche da parte dei cittadini (sono ancora molti quelli che li prendono senza indicazione del medico, magari per l’influenza) hanno favorito la creazione di ceppi di batteri resistenti».
Quali strumenti abbiamo per combattere il fenomeno? L’informazione e la ricerca. «La prima è fondamentale perché è dalle nostre case che deve partire un utilizzo responsabile di questi farmaci», prosegue Pregliasco, «la seconda non deve fermarsi, sia attraverso il monitoraggio nelle strutture ospedaliere – le più a rischio – sia con la diffusione delle vaccinazioni che hanno lo scopo di prevenire le infezioni».
Fleming stesso, per la verità, ci aveva già messo in guardia, durante il discorso di accettazione del premio Nobel, dichiarando: «Potrebbe arrivare il momento in cui la penicillina potrà essere acquistata da chiunque nei negozi. Poi c’è il pericolo che l’uomo ignorante possa facilmente assumerne una quantità più bassa e, esponendo i microbi a quantità non letali del farmaco, renderli resistenti».
Fonte: Nicoletta Lucia Bagliano | FamigliaCristiana.it