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La grande svolta? L’Homo Diplomaticus e il ritorno della politica

Il dibattito sul destino dell’Homo Diplomaticus ha sollevato un grande interesse, espressosi attraverso undici contributi forniti da addetti ed esperti, tutti frequentatori della politica internazionale nelle differenti vesti di ambasciatori, generali, figure istituzionali, giornalisti, studiosi. A tutti loro va un sincero ringraziamento per le articolazioni e gli approfondimenti del tema. Non si può non rilevare, ancora una volta, quanto i tempi siano “purtroppo” interessanti.

La discussione è stata talmente ricca che è possibile riprenderla solo individuando, inevitabilmente a scapito di altre, alcune chiavi interpretative. Innanzitutto vi è una larga condivisione dell’idea che la presunta crisi della diplomazia dipenda dalla politica. Trova pertanto credito l’idea di partenza che la diplomazia sia ancella intelligente della politica, ovvero uno strumento al servizio degli obbiettivi additati dalla politica. Irene Pivetti spinge all’estremo questa riflessione negando la crisi della diplomazia, perché spetta alla politica la responsabilità di avanzare proposte di pace, senza lasciar cadere nel vuoto quelle che, per provenienza, possano suonare per alcuni divisive. L’ex Presidente della Camera dei Deputati riporta gli esempi di Trump e Xi.

In un certo senso più cupa, ma sempre orientata nella medesima direzione, è la visione di Rodolfo Casadei, che in base alla propria esperienza professionale conclude che i diplomatici, salvo rari casi come quello ben noto di Sergio Romano a Mosca ai tempi della perestrojka, non esprimano alcuna autonomia o capacità propositiva rispetto alla politica. Egli rileva di non aver mai incontrato “diplomatici kantiani”, e questo non deve sorprenderci perché un buon diplomatico ha il dovere, professionale ed etico, di attenersi a un sano realismo. Per bilanciare con un tocco più ottimista si può osservare che nel corso della Guerra fredda la diplomazia ha dato ampie e significative prove di vitalità e creatività, rappresentando sovente il lubrificante di un ordine internazionale stabile, che ha saputo scongiurare un conflitto generale e circoscrivere quelli periferici.

Altrettanto stimolante un’altra riflessione proposta da Casadei: egli dubita che il riemergere di conflitti assoluti, finalizzati alla distruzione del nemico, metta in dubbio il paradigma clausewitziano, ovvero la gradualità della guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi. Egli richiama a tal proposito René Girard, autore di un saggio dal titolo adamantino, Portando Clausewitz all’estremo. Certo, i nostri tempi segnano un ritorno a scenari apocalittici che speravamo relegati al secolo passato. Tuttavia, occorre ricordare che nelle quasi mille pagine del suo incompiuto saggio sulla guerra, il generale prussiano si preoccupava di rammentare sovente quanto fosse difficile, e per questo ancor più necessario, mantenere la distinzione fra politica e guerra.

Se la politica persegue l’annientamento appiattendosi sulla guerra e negando ogni possibilità alla diplomazia, il livello di anarchia che in natura caratterizza il contesto internazionale risulterà particolarmente elevato, ovvero distante da qualsiasi prospettiva di ricomposizione. È proprio la mancanza di un ordine internazionale, un punto largamente condiviso dagli autori dei vari contributi, a rendere drammatica l’attuale crisi della politica, che è il secondo punto emerse nella discussione. Francesco Garofalo rileva la necessità di riproporre la lezione realista di Hans Morgenthau per arginare quella deriva apodittica che ridurrebbe pericolosamente la politica internazionale a un’improbabile contesa fra sistemi liberali e illiberali. I pozzi della politica, ci fa rilevare Garofalo, sono avvelenati dalla nuova comunicazione. Essa rappresenta oggi per la politica una risorsa potentissima, “totalizzante”, ma al contempo anche un fattore distorsivo. Attraverso i canali della nuova comunicazione scorre irrefrenabile il processo di demonizzazione dell’avversario, si additano i “nuovi Hitler”, si recide prima ancora del confronto diplomatico la possibilità della comprensione. Rifiutarsi di decifrare l’interlocutore è una responsabilità che nella storia è sempre stata pagata a caro prezzo.

A soffrire particolarmente di questa brutalizzazione è stato il soggetto internazionale che da sempre opera non per mediare, ma per creare i presupposti stessi della mediazione, ovvero la Santa Sede. Matteo Matzuzzi, dopo aver evidenziato la storica rilevanza dei pontefici diplomatici, rileva il disagio di Papa Francesco nel condannare le attuali guerre cercando al contempo di non compromettere le possibilità di mediazione. L’idea della guerra come male assoluto è stata di fatto messa al bando dalle politiche radicalizzate. La gravità di una politica divisiva, delegittimante, ideologizzata, è sottolineata anche da Lorenzo Zambernardi, il quale ricorda come Morgenthau facesse risalire la crisi della diplomazia alla prima guerra mondiale, tempo di una prima grave polarizzazione. Egli conclude che spetta ancora alla politica riscoprire la virtù dell’equilibrio e della moderazione, lasciandosi ispirare dalla lezione di Martin Wight, che sovvertendo il noto adagio wilsoniano affermò che senza pace non può esserci giustizia.

Come ripristinare il virtuoso rapporto fra una politica da sanare, un uso della forza da razionalizzare e una diplomazia da rilanciare? È questo un terzo punto di grande interesse, e centrale, emerso nel dibattito. Michele Valensise ricorda come fare diplomazia significhi coltivare un «“terreno di gioco” comune», coinvolgere l’antagonista nella medesima partita, ridurre le distanze attraverso le confidence building measures da un lato, la deterrenza dall’altro, elementi andati perduti con la disgregazione dell’ordine bipolare. Naturalmente occorre sempre ricordare che nessuno sforzo diplomatico è credibile se non corroborato dalla forza, un punto ribadito da tutti gli ambasciatori che hanno contribuito alla discussione. Questo elemento ne introduce un altro, assolutamente centrale: come rilevano Giancarlo Aragona e Guido Lenzi, la forza non può essere espunta dalle relazioni internazionali, perché è utopica, oltre che inquietante, l’idea di un governo mondiale che elimini l’anarchia dal contesto internazionale. Nondimeno, non si può fare a meno di rilevare, con rammarico, quanta legittimazione politica sia stata cercata in questi ultimi anni dalle maggiori istituzioni internazionali e perfino da vari leader nazionali in nome della presunta Global Governance, che ha finito per piegare le ragioni stesse di quella preziosa risorsa che è il multilateralismo.

Imbrigliare il demone della guerra non è mai stato facile e richiede un atto di responsabilità da parte di una politica nuovamente sovrana, non mero esercizio di élite autoreferenziali. Il crollo dell’URSS e la perdita dell’equilibrio internazionale hanno indotto, in un tripudio di hybris occidentale, a inseguire la pericolosa illusione del migliore dei mondi possibili, attraverso conflitti divenuti palingenetici. Naturalmente questa ricomposizione razionalista fra politica e forza non incontra i favori di chi, come Robi Ronza, vorrebbe esorcizzare il ricorso alla guerra, che definisce il “peccato originale” delle relazioni internazionali, o la grande illusione di cui scrisse agli inizi dello scorso secolo Norman Angell.

Infine, tutta la discussione converge sugli attuali scenari internazionali, fra instabilità, nuove guerre assolute e messianiche attese di un nuovo ordine che tarda a consolidarsi. Giuseppe Cucchi vede due scontri ciclopici in atto: quello globale fra l’Occidente e i BRICS, e quello tutto interno alle società occidentali e che ha in palio niente meno che la democrazia, minacciata dall’emergere di attori internazionali individuali, personalità che hanno un impatto di gran lunga superiore a quello di molti attori statuali. Occorrerebbe allora riscoprire quella capacità tutta diplomatica di studiare l’interlocutore, imparare a conoscerlo per poterlo interpretare e in qualche modo prevedere. Questo processo richiede una certa finezza, un esercizio culturale oggi poco diffuso, nell’epoca dei social e delle torsioni comunicative cui si sottopone la politica. L’adattamento a questa nuova complessa realtà, che i politici spesso cavalcano o subiscono, è la vera sfida da cogliere per un futuro più stabile e decifrabile.

Anche Luciano Monzali si sofferma sugli scenari presenti, il più rilevante e evidente dei quali è, a suo giudizio, la crisi dell’egemonia statunitense, dopo il “secolo americano”. La “fine della storia” si è rivelata un’interpretazione ideologica e puerile, una foglia di fico con cui celare una grande verità storica: l’URSS si piegò per il suo isolamento, per la sua stessa impossibilità di trarre vantaggio dal confronto con gli altri mondi. Quelle realtà geopolitiche asiatiche che nella fase culminante della Guerra fredda furono distanti o addirittura ostili a Mosca, come Iran, Turchia, India e Cina, sono nel frattempo divenuti battitori liberi delle relazioni internazionali, tutti più o meno insofferenti del Washington Consensus. Analogamente, una risorgente Russia, molto diversa da quella di Eltsin che negli anni ‘90 cercò la propria stabilità all’ombra di Clinton, si è brutalmente opposta all’occidentalizzazione dell’Ucraina. La Casa Bianca ha praticato una “diplomazia imperiale”, finalizzata a isolare la Cina, ma in un contesto assai più complesso e meno controllabile di quanto previsto a Washington per il dopo Guerra fredda. Si tratta di un approccio che ha fallito nel contrastare il multipolarismo emergente e che ha lasciato campo al trumpismo, e a una nuova diplomazia, pur sempre “imperiale”, ma orientata a una ben differente visione dell’interesse nazionale, che ripudia definitivamente la globalizzazione.

In conclusione, occorre ricordare come la ricchezza di questo dibattito si sia espressa a cavallo dell’avvento alla presidenza di Trump, che ha impresso una svolta radicale, non circoscritta alla sola politica estera americana. Il discorso che il Vicepresidente Vance ha rivolto agli europei in occasione della conferenza sulla sicurezza internazionale di Monaco nello scorso febbraio ha il senso amaro di una lezione, un richiamo alla nuova dura realtà, quella imposta, secondo il linguaggio dello stesso Vance, dall’avvento del “nuovo sceriffo”. Lo shock è stato potentissimo, fra chi si è indignato ricordando che l’Europa non tollera lezioni di democrazia, chi ha preferito prender tempo, e i più che si sono sentiti improvvisamente delegittimati come leader occidentali. Non siamo di fronte alla prevista “calata degli Hyksos” sulla politica occidentale, ipotesi che trascura la mole di milioni di voti che Trump ha raccolto in tre successive campagne elettorali, un periodo piuttosto prolungato per essere puramente transeunte, e che sancisce un riorientamento valoriale in senso conservatore della più potente democrazia al mondo.

Sul piano della politica internazionale non si può fare a meno di osservare come il meno diplomatico dei presidenti abbia avuto un impatto fortissimo, creando nuove prospettive politiche, le quali prevedono un richiamo della forza. Anche se per stile personale appare improbabile che sotto Trump possa avvenire un rilancio della diplomazia “convenzionale”, come il drammatico scontro con Zelensky ha dimostrato, è certamente di notevole rilievo l’aver ripristinato il corretto rapporto fra politica e guerra, con la prima in grado di porre lo stop alla seconda. Può essere Trump un neoclausewitziano? Non è la prima volta che lo “sceriffo” della Casa Bianca adotta un piglio rude e brutale, come sperimentò Molotov nel passaggio da Roosevelt a Truman. Il ritorno del realismo, nelle sembianze truci di Trump, è uno dei paradossi maggiori dei nostri tempi, ma anche dei più stimolanti, come dimostrano certe reazioni. L’Ue prova a reagire varando un piano di riarmo che pare allineato alla richiesta statunitense di una maggior contribuzione militare, mentre Macron si spinge a offrire la condivisione dell’ombrello nucleare francese al cospetto della minaccia russa. La vera questione è se da tutto questo ritrovato dinamismo internazionale potrà nascere, o meno, un nuovo ordine internazionale. Dipenderà, in misura non trascurabile ma non esaustiva, dalla profondità delle intenzioni del nuovo presidente americano. Riconfigurato l’interesse nazionale statunitense a colpi di dazi, occorrerà capire se ci troveremo al cospetto di un multipolarismo più o meno stabile. Nel frattempo, l’Homo Diplomaticus avrà molto da lavorare…e studiare.

Fonte: Paolo Soave*

*Università di Bologna

 

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