L’articolo di Corrado Clini ripercorre con grande chiarezza le varie tappe che hanno coinvolto la comunità internazionale in merito alle azioni da intraprendere per fronteggiare il riscaldamento globale. La sua prima conclusione è relativa all’ insuccesso, non trovo altra parola, di ben 30 appuntamenti successivi delle diverse COP. Può darsi che questo sia in parte dovuto all’insufficienza del campo normativo internazionale, alla non obbligatorietà degli impegni assunti, alla variabilità delle opinioni e ai cambi di governo di cui le recenti prese di posizione dell’amministrazione Trump sono l’esempio più evidente.
Ma ritengo che vi siano ragioni più di fondo per questo gigantesco insuccesso. Ricordo che le emissioni climalteranti sono continuate a crescere anno dopo anno in tuti gli ultimi decenni da quando questo dibattito è iniziato. Clini lo scrive, ma vorrei stressarle maggiormente per rendere il tutto più chiaro.
Ragioni più di fondo. Vediamole. Prima, però, un’osservazione preliminare. Clini sottolinea i costi sempre maggiori dei mutamenti climatici. Presenti e futuri. Mi pare però che essi non abbiamo raggiunto nelle diverse economie nazionali livelli tali da minacciare l’andamento della crescita economica. Che è eventualmente minacciata, è il caso dell’Europa, da altri fattori quali i costi dell’energia e la competitività.
La maggior parte del mondo continua il suo processo di crescita economica e non pare disposta a scambiare i maggiori costi che deriverebbero da politiche di drastica riduzione della, CO2 con un rallentamento della crescita. Strada che invece sembra avere percorso l’Europa con un’impostazione assai spinta delle politiche legate al Green Deal. Fallendo però l’obiettivo principale. Che era quello di intraprendere questa strada conquistando contemporaneamente la leadership di alcuni processi industriali per altro mai ben definiti. Al contrario non vi è dubbio che l’impostazione estremamente rigida delle politiche green europee abbia portato al disorientamento in diversi settori industriali, primo fra tutto l’automotive, e soprattutto a un eccesso di regolazione e di oneri ad essa connessi a cui oggi si cerca di porre tardivamente rimedio.
Nel frattempo la leadership tecnologica green è stata stabilmente conquistata da altri paesi, la Cina innanzitutto, in settori decisivi quali i pannelli fotovoltaici, le batterie e l’auto elettrica. È vero che le emissioni europee sono calate in maniera consistente, ma ormai il suo contributo al totale delle emissioni mondiale è assai ridotto, 6,4 % scrive Clini, e le diminuzioni europee sono largamente compensate dall’aumento di molte altre aree del mondo, innanzitutto in Asia. Uno sforzo quindi, quello europeo, del tutto inutile dal punto di vista del bilancio mondiale delle emissioni.
Né è mai stato fatto seriamente un ragionamento sul costo opportunità degli investimenti per ridurre la CO2. Da cui sarebbe derivato evidente che se l’obbiettivo primario fosse stato quello della riduzione delle emissioni i risultati maggiori si sarebbero ottenuti e si possono ottenere intervenendo nelle aree e nelle tecnologie meno efficienti, che sono tutte collocate fuori dall’ Europa. Al contrario e in modo ideologico e quasi “morale” si è voluto puntare su obblighi nazionali, senza tenere conto della loro effettiva efficacia. Un euro investito in efficienza energetica in Europa ottiene risultati assai minori dello stesso euro investito in aree tecnologicamente arretrate. Clini giustamente denuncia anche le opposizioni ingiustificate a tulle le politiche di scambio di emissioni fra paesi diversi secondo criteri di efficienza e di convenienza.
Ma se poi ci vogliamo interrogare più a fondo sulle cause strutturali del continuo aumento delle emissioni esse vanno rintracciate nella povertà energetica che ancora affligge miliardi di persone. Infatti la Cina, l’unica grande area che abbia ottenuto risultati decisivi di crescita economica e di riduzione della povertà, ha quadruplicato i suoi consumi energetici fra il 2000 e il 2020. La conseguenza è stata anche che è diventata il primo emettitore mondiale. Ma dietro la Cina si affacciano oggi l’India, buona parte dell’Asia e tutta l’Africa. Il consumo elettrico medio di un africano è pari a quello di un frigorifero europeo o americano.
Questi paesi chiedono energia, perché solo con maggiore disponibilità di energia possono crescere economicamente e raggiungere un minimo benessere. Le fonti più largamente disponibili anche per il costo sono i combustibili fossili. Che infatti mantengono una quota sulla soddisfazione del fabbisogno energetico mondiale di circa l’80%. Come 30 anni fa, ma nel frattempo i consumi sono raddoppiati e quindi quel 80% in termini assoluti è anche raddoppiato e con esso sono cresciute le emissioni. Osservando i dati degli ultimi anni si vede che il loro apporto è aggiuntivo ma non sostitutivo.
L’attuale set di tecnologie disponibili per sostituire le fonti fossili, fondamentalmente le fonti rinnovabili, non è in grado da solo di fare fronte a questa richiesta. Le rinnovabili hanno limiti intrinseci di densità, continuità, programmabilità che solo in parte possono essere compensati dagli accumuli.
Abbiamo quindi bisogno di riuscire a mettere a punto innovazioni tecnologiche in tutti i campi. Le transizioni avvengono solo quando nuove tecnologie si affermano e non perché vengono decise per legge. Che sia il nucleare di vecchia e nuova generazione, la fusione in futuro, batterie di densità molto più alta dell’attuale, sistemi di sequestro del carbonio che riducano l’impatto dei combustibili fossili, migliore efficienza energetica poco importa. Ma questa è l’unica direzione percorribile
Fonte: Chicco Testa | Lisander.com