Entro il dibattito odierno in tema di cambiamenti globali e politiche europee, le tesi avanzate da Corrado Clini nell’intervento che ha aperto questo confronto su Lisander appaiono quanto mai ragionevoli e degne d’attenzione. In un certo senso Clini dice che, dopo qualche decennio di fanatismo e ideologia, sarebbe opportuno ridisegnare l’intero progetto di “transizione verde” allestito dall’Unione europea: il cui impatto sulla libertà e sulla prosperità di ognuno di noi è rilevante (basti pensare soltanto alle decisioni in tema di automobili e abitazioni).
A giudizio dell’ex ministro, anche ammessa la tesi secondo cui l’aumento della temperatura sarebbe da addebitare ai gas serra e soprattutto all’anidride carbonica, dal momento che il tempo di permanenza è di almeno 100 anni, è evidente che agire oggi sul fronte della riduzione delle emissioni per lungo tempo non avrà alcun impatto su quanto sta avvenendo. Da qui la proposta di puntare su interventi “a valle” (che impediscano le devastazioni causate dal cambiamento climatico) invece che su interventi “a monte” (che pretendano di bloccarne la causa reale o presunta). Il cuore dell’analisi consiste nell’affermazione che «la decarbonizzazione dell’economia europea genera un valore aggiunto marginale rispetto alle misure per la protezione dei territori dagli eventi climatici estremi: la resilienza dell’Europa è l’infrastruttura necessaria per la sicurezza, la modernizzazione e la competitività dell’economia europea».
Clini propone allora un «programma a lungo termine (almeno 10 anni), finanziato con un fondo comune europeo per mettere in sicurezza il territorio dagli eventi climatici estremi». Altri fondi europei dovrebbero poi essere destinati a «investimenti “mirati” per la progettazione e la produzione di soluzioni, innovative rispetto a quelle già disponibili, e competitive nel mercato della decarbonizzazione».
Oltre a ciò si tratterebbe di mutare le logiche del Green Deal, passando da sanzioni negative (pene e proibizioni) a sanzioni positive (incentivi e aiuti). Il tutto dovrebbe essere sostenuto da specifici interventi ingegneristici: a partire dalle reti elettriche transeuropee. Non manca neppure l’invito a favorire il metano e soprattutto il nucleare. Nell’Europa delle Ursula von der Leyen e dei Mario Draghi, un simile riformismo va apprezzato; ed è assai probabile che quella di Clini rimarrà una vox clamantis in deserto. Pure un Green Deal così “riformato” non si sottrae però a obiezioni.
Innanzitutto, c’è da domandarsi se sia opportuno accettare la tesi sottostante a questa analisi e a molte altre simili; e cioè che il diritto dovrebbe seguire la scienza. In un loro recente volume (Restoring Science and the Rule of Law, Londra, Palgrave Macmillan, 2024), Michael Esfeld e Cristian Lopez hanno sostenuto che il diritto non dovrebbe mai smarrire la propria indipendenza nei riguardi delle scienze della natura, perché si tratta di discipline che perseguono finalità diverse e operano con metodi distinti. Mentre la scienza latamente intesa si occupa della comprensione dei fenomeni naturali attraverso l’elaborazione di teorie, l’osservazione e l’analisi empirica, il diritto riguarda la normatività e la giustizia, che richiedono riflessioni etiche, morali e politiche. Se il diritto finisse per essere governato esclusivamente da considerazioni scientifiche, perderebbe la sua capacità di adattarsi a quei valori che sono essenziali per una società giusta.
Nel loro libro gli epistemologi dell’università di Losanna mettono in guardia contro ogni interpretazione scientista del diritto, consapevoli di come sia rischioso pensare che quanti studiano la natura offrano risposte definitive e univoche alle questioni giuridiche. Un approccio meramente scientifico ignora le implicazioni etiche e normative, con il risultato che il diritto diventa un’area subalterna alla fisica, alla chimica o alla medicina. La scienza, però, non ha nulla da dire in merito alle questioni concernenti il dover essere e quindi non può dirci quali diritti debbano essere riconosciuti o quali punizioni siano giuste. Per Esfeld e Lopez, in conclusione, non si può ridurre la giustizia a una mera applicazione di congetture elaborate dagli studiosi delle scienze dure.
D’altro canto già Karl Popper aveva sottolineato che una teoria scientifica non può mai essere ritenuta definitiva: essa per definizione è sempre provvisoria e la sua validità dipende dalla capacità di resistere a falsificazioni. Secondo lo studioso austriaco «le teorie non sono mai verificabili empiricamente»: esse sono scientifiche se falsificabili e restano attendibili fino al momento in cui non saranno falsificate. Se allora si adotta un atteggiamento razionale (e non misticheggiante) dinanzi ai risultati della scienza del nostro tempo, ogni illusione tecnocratica manifesta la sua inconsistenza.
Queste osservazioni sono particolarmente rilevanti alla luce del fatto che, entro la logica di chi mette sotto processo i comportamenti che sarebbero all’origine dell’aumento della temperatura globale, a essere considerati illecite sono azioni che, in quanto tali, non violano alcun diritto altrui o – nella peggiore delle ipotesi – lo fanno in modo bagatellare. (Nella terminologia dei giuristi questo termine indica azioni e situazioni che sono insignificanti poiché di poco valore, spesso in riferimento a infrazioni o violazioni del diritto di limitatissima importanza).
In questo senso nella tradizione giuridica non è accettabile che un comportamento singolo che in quanto tale non lede i diritti altrui sia considerato illecito solo perché la somma di analoghi comportamenti – qualora fossero commessi – implicherebbe una qualche lesione ai diritti altrui.
Che fare, dunque, in simili circostanze? Come evitare che il mondo sia peggiore a seguito di comportamenti che il diritto ci impedisce di vietare? In situazioni come queste chi voglia perseguire un ben preciso obiettivo non può fare un ricorso abusivo alla coattività della legge, ma deve invece affidarsi all’efficacia della persuasione. Va aggiunto che le tesi che sono avanzate da larga parte del mondo scientifico sono da ritenersi, oltre che (ovviamente) non verificate, anche alquanto viziate dal combinarsi di situazioni culturali e/o istituzionali che obbligano a considerare con attenzione i messaggi provenienti dall’universo della ricerca.
Nel Novecento la vicenda del lysenkoismo (l’opposizione del regime sovietico alla genetica di matrice mendeliana) illustra in modo paradigmatico quale possa essere l’intreccio tra potere e ricerca. Se l’Unione sovietica appartiene al passato, non va ignorato come l’Occidente del nostro tempo corra rischi per certi aspetti analoghi. Nel contesto europeo, ad esempio, uno studioso che intenda costruire una carriera di prestigio non può ignorare i programmi Horizon, sostenuti finanziariamente dall’Unione. Il guaio è che i temi dei bandi sono il frutto di decisioni politico-ideologiche: dalle questioni di genere alla transizione ambientale, dal riscaldamento globale alla lotta ai populismi. Ogni volta siamo di fronte a domande che prefigurano già le risposte, così che gli interessi e i valori prevalenti nel mondo politico condizionano pesantemente la scienza.
Quanti studiano la vita politica, per giunta, non possono ignorare la lezione di quel realismo politico (un nome per tutti, Carl Schmitt) che, indagata la natura della sovranità, evidenzia come ogni struttura di potere abbia tutto da guadagnare da ripetuti “stati di eccezione” e continue situazioni emergenziali. Poiché sovrano è colui che decide in stato di eccezione e che decide soprattutto che ci si trova in stato di eccezione, ogni potere di matrice statale che ambisca a consolidarsi sarà motivato a individuare emergenze di vario tipo e a sfruttare ogni teoria formulata all’interno del dibattuto scientifico per legittimare le proprie decisioni. Anche questo, in definitiva, finisce non di rado per intorbidare le acque.
Non è un caso che, a partire dalle Torri Gemelle, l’Occidente sia passato da una crisi all’altra: dopo il terrorismo islamista abbiamo conosciuto il caos finanziario connesso ai mutui subprime, dopo la pandemia la guerra russo-ucraina, fino ai cambiamenti climatici. Non è necessario negare l’esistenza degli avvenimenti sopraricordati per comprendere che da parte di taluni soggetti c’è sempre un forte interesse a offrire una lettura il più possibile drammatica della realtà: che permetta di sospendere il diritto e favorisca soluzioni “commissariali”.
Un’ultima considerazione riguarda gli attori che devono intervenire di fronte alle difficoltà segnalate da chi sottolinea non soltanto che la temperatura si sta innalzando, ma che i costi di tutto ciò sopravanzerebbero di gran lunga i benefici. Secondo quale logica l’Unione europea dovrebbe essere nella migliore condizione per affrontare tali problemi? Se, come afferma Clini, abbiamo bisogno di modernizzare le società europee e dotarle di migliori infrastrutture anche al fine di gestire al meglio gli inconvenienti del mutamento climatico, per quale motivo tutto ciò dovrebbe essere predisposto da soggetti pubblici (che utilizzano le risorse derivanti dall’imposizione fiscale) e per giunta tanto lontani da ogni controllo e verifica? Anche quanti pensano che il mercato sia quella savana in cui l’animale più feroce si alimenta con le carni del più debole possono comunque comprendere che la tutela delle coste, la gestione dei corsi fluviali e del drenaggio delle acque piovane, la protezione delle foreste e degli ecosistemi e di tutto il resto possa essere assai meglio realizzata da responsabili locali invece che da apparati finanziati e/o regolati dall’Unione. Dopo decenni di discussioni (spesso molto oziose) in tema di sussidiarietà, almeno su questo ci si dovrebbe trovare d’accordo.