L’acclamata miniserie «Adolescence» mostra che oggi i ragazzi strutturano l’identità online, cioè privi dei corpi. Le quattro puntate sono virtuosisticamente girate in piano sequenza, un’unica ripresa senza stacchi in cui i fatti sembrano accadere nel tempo che ci mettono ad accadere. E poiché la forma è contenuto, questa scelta narrativa oltre a catturare l’attenzione di chi ormai guarda la tv mentre compulsa i social, cela qualche pecca di profondità della storia e mostra l’origine della nostra ansia: oggi non usciamo mai dal flusso, ne subiamo la corrente, ci anneghiamo.
Come il re dell’apologo di Borges che nel suo delirio di potenza costringe i cartografi a disegnare una mappa dell’impero sempre più precisa, sino alla scala 1 a 1, con il risultato che la carta copre il regno che va in rovina. Anche noi immersi nel flusso continuo di immagini e informazioni non riusciamo più a comprendere e comprenderci, non abbiamo una mappa utile a leggere il territorio. Mai come oggi abbiamo tanti strumenti educativi quanto poco riusciamo a educare efficacemente. Che fare?
L’identità umana è narrativa, la continuità del sé è una storia che raccontiamo prima a noi e poi agli altri, ma che cosa accade se un io in formazione perde il senso del tempo, cioè annega nel flusso? Si aggrapperà a qualsiasi relitto pur di restare a galla, costruirà un sé sintetico, non un soggetto (ciò che sta sotto, il protagonista della storia, la continuità del sé) ma un deep-fake-self, un sé in apparenza reale ma vuoto, debole e impaurito. L’online ci abitua a un corpo pensato, come fosse contenuto nella mente, un burattino da muovere a comando di desideri o aspettative. Ma la vita resiste al sintetico, perché la vita è tempo fatto carne. Ed è dalla carne (l’esserci in modo irripetibile in un tempo limitato) che dobbiamo partire per ricominciare a dare un senso al tempo e quindi al sé. E qui la natura detta il ritmo senza mentire.
Da un punto di vista evolutivo infatti la lunghezza dell’accudimento è un fenomeno umano (il cucciolo di animale diventa presto adulto): un tempo di crescita ampio allo scopo di permettere al giovane di lasciare casa per farne una nuova. Le fasi che portano all’esito, da 0 a 18, sono grossomodo tre: da 0 a 6 il corpo (che è il nostro cervello) è massimamente plastico, il bambino vuole e deve provare ogni cosa e il compito degli educatori è segnalare i limiti. L’età del dito nella presa elettrica.
Dai 6 ai 10 anni il corpo-cervello rallenta allo scopo di stabilizzare le capacità utili a sopravvivere: si parla infatti di «bambino competente». L’età di aste, tabelline e collezioni, delle elementari, come amo ancora chiamarle per il loro fine: acquisire gli «elementi» indispensabili per vivere nel contesto in cui si è nati. Oggi tanti bambini con disturbi di attenzione e iperattività ci ricordano del bisogno di un rapporto con la realtà a tutto corpo e meno sintetico.
Poi il corpo-cervello torna alla plasticità dei 0-6 (l’adolescente «rimbambisce»), ma con una novità: la spinta all’esperienza si erotizza, il corpo diventa capace di dare la vita. L’obiettivo di questa energia è infatti andarsene di casa e farne una nuova, perché la vita umana si compie quando si scopre il proprio modo di darla. In questa fase il senso della vita si precisa sia a livello biologico sia esistenziale: quale è il mio compito nel mondo? E all’educazione affettiva e relazionale deve infatti affiancarsi quella generativa e vocazionale.
Rispetto agli animali dotati di istinti noi dobbiamo «imparare» a stare al mondo in modo unico. Per questo ogni civiltà, se vuole sopravvivere, struttura forme educative efficaci per i propri scopi: per semplificare con esempi classici, a Sparta diventare buoni soldati, ad Atene buoni cittadini. Noi? Diventare chi? Se non c’è una risposta chiara e quindi forme educative precise, allora a educare sarà lo «scorrere» del tempo che però non è mai neutro, perché scorre secondo la «corrente» dominante (il potere), che oggi è l’online, che ci vuole consumatori docili e isolati.
Adolescenza viene da ad- (teso verso…) unito all’antica radice ol- (…il compimento) che significa intero, totale, compiuto. Adolescente è infatti il participio presente del verbo latino adolescere di cui adulto è il participio passato, l’effetto, adolescere è quindi scoprirsi dotati di un’unicità che da dote ricevuta può diventare compito, cioè una storia completa che va dal «c’era una volta» al «visse felice e contento», da generato a generativo. L’adolescente vuole infatti «le chiavi» di casa: della vita per fare altra vita. Ma è sempre all’autorità (da augeo: far crescere) che le chiede, ma se l’autorità non le ha o le ha smarrite, allora è il potere (la corrente) a offrirle: oggi l’online, creato dagli adulti per ragioni economiche e non educative. Per entrare nell’online un pre-adolescente apre un profilo, la prima narrazione pubblica di sé, quando in realtà per l’età che ha non potrebbe. Il suo modo di cominciare a narrarsi è quindi mentire: prima di conoscere la propria unicità, accetta la maschera che ne è l’abolizione e ne diventa dipendente. A questo si aggiunge il continuo flusso di immagini e informazioni fuorvianti, emotivamente non gestibili o false (come quelle a cui crede il tredicenne protagonista della serie), la mente si separa dal corpo, e il destino invece di diventare destinazione verso (ad-) il tutto (-ol) se ne allontana, diventa «ab-olescenza», ab- al contrario di ad-, indica separazione, allontanamento, isolamento da quel tutto, da quel compimento. L’io diventa obl-io, si dimentica di vivere e si lascia vivere. Senza carne non «c’è storia», perché non c’è il senso del tempo ma solo il flusso. Se la vita è tempo incarnato si educa solo nella carne (per questo stiamo ancora in classe con gli studenti o mangiamo a tavola insieme), mentre l’online, che occupa gran parte delle vite, disincarna. Il sintetico non sente la vita: alla domanda su come eliminare in poco tempo il cancro l’IA risponde: eliminando il genere umano. Risposta efficiente ma «senza senso», senza carne. Bambini e adolescenti invece chiedono a noi un tempo sensato, incarnato e non sintetico; chiedono la restituzione del corpo, del limite, della realtà; chiedono di tirarli fuori dal flusso per respirare un po’. Chiedono di far scoprire loro la terraferma: la buona vecchia faticosa entusiasmante realtà.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it