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Caravaggio, trafiggere il nichilismo a fil di luce

A Palazzo Barberini (Roma), fino al 6 luglio, è aperta la mostra “Caravaggio 2025”. Una verità, quella del Merisi, che non smette di stupire.

Alla fine occorrerà pur spiegarci perché Michelangelo Merisi ci parla. Di più, perché ci trae alle sue tele con uno scuotimento che travalica il gusto estetico, perché ci fa dire non solo “che bello!”, ma anche “quanta verità!”, quasi che s’azionasse nel suo dipingere una bilancia interiore per soppesare la sostanza della vita.

Sì, sappiamo tutti che fu assassino e ciò aggiunge un’aura di maledettismo che s’abbraccia bene a un certo cliché dell’artista impasto di genio e di sregolatezza, ma questo rischia d’essere un sentire superficiale; vogliamo forse sostenere che la pittura del Beato Angelico non sia anch’essa un distillato di grazia in ragione d’una vita proba?

Ci sono in effetti blasonati critici che ritengono che la fama di Caravaggio sia dovuta più alla movimentata sua biografia che alla sua qualità d’artista, ma stare di fronte a certe sue opere, in particolare a quelle con “gli scuri ingagliarditi”, a quella gran mole di tinta buia – non però come a tanti quadri inscuriti dal tempo passante spietato o abbuiati dalla fuliggine o dalla malora, fuori dunque dalla volontà del pittore – a quel nero pece da lui volutamente sparso a sommergere larghi pezzi di realtà tutt’intorno ai volti, o poco di più, fa pensare.

Fa pensare a come lui pensava (cioè pesava) il suo tempo, in cui san Filippo laudeggiava con “Vanità di vanità, tutto è vanità” e a noi contemporanei con un piede in quel Novecento così gravido di funeste cose, richiama alla mente certe parole di Martin Heidegger, accreditata autocoscienza del nostro tempo: “La notte del mondo distende le sue tenebre … Si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza”.

Eccolo allora il fascino magnetico del Merisi per noi uomini d’oggi: Caravaggio rasenta il nichilismo e non vi si crogiola, lo trafigge a fil di luce! Nel Seicento noir che lui ci racconta in figure e colori la luce fiotta ancora, seppur non più diffusa o gloriosa come nei due secoli addietro, il suo mondo raffigurato è avvolto in gran parte dall’oscurità ma un sottile chiarore la fende illuminando l’uomo, la sua miseria, il suo bisogno, la sua incredulità, il suo cuore, il suo volto.

E nella straordinaria mostra a Palazzo Barberini a Roma (una rara concentrazione internazionale caravaggesca curata da Maria Cristina Terzaghi, Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon) il volto di Caravaggio c’è, ben presente. Tralasciando – ma solo fino a un certo punto – l’autoritratto giovanile del Bacchino malato della Borghese, che mette un po’ in disagio con la sua versione null’affatto florida del mito originario; sorvolando – anche qui, solo parzialmente – sull’interrogativa sperdutezza dello sguardo di Michelangelo suonatore di cornetto nel Concerto del Met, abbiamo altri tre sontuosi quadri dotati di autoraffigurazione: il potente e dolente David con la testa di Golia (Galleria Borghese), scevro d’ogni trionfalismo e denso di pietà (un dono al papa Paolo V per impetrare la grazia per l’omicidio commesso);

la Cattura di Cristo (National Gallery Dublino), dove in alto a destra il giovane curioso dalle fattezze merisiane cerca di diradare le tenebre notturne in cui si svolge il concitato (san Giovanni fugge via gridando) misfatto del tradimento tenendo come Diogene una lanterna in mano; infine, nell’ultima opera del Merisi, il magnifico e spettrale Martirio di Sant’Orsola (Gallerie d’Italia, Napoli), acconciamente restaurato da Fabiola Jatta e Laura Cibrario, in cui sempre in alto a destra Caravaggio si autoritrae come in affannoso debito di luce.

Oltre alla cinquina degli autoritratti, cinque sono pure i Caravaggio trasvolati dall’America (più un madrileno, uno londinese e il già citato dublinese), uno mai visto finora in Italia come l’Ecce homo, di recente ritrovamento in Spagna (ad opera di Terzaghi, autentica Caravaggio hunter), un ritratto, anch’esso mai esposto, di Maffeo Barberini, futuro Urbano VIII; insomma una vigorosa nuotata in anse poco note del mare caravaggesco, perennemente agitato, la cui intima inquietudine entra nelle ossa.

Fonte: Tommaso Ricci | IlSussidiario.net

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