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La rivoluzione che spodesta il borghese che è in noi

Serve una rivoluzione dell’autocoscienza per sconfiggere l’ideale del “sentirsi a posto”. Il vero non-borghese è chi vive quella virtuosa insoddisfazione che si chiama mendicanza. Uno stralcio dalla sintesi della Convivenza giovani di CL Europa di Ávila

La parola autocoscienza ha molte sfumature. Mi sembra quindi opportuno partire proprio da questa parola, perché è quello l’ambito in cui emerge la possibilità di un cambiamento. Il contrario del borghese, si sa, è il rivoluzionario. Vale la pena ricordare che il titolo del libro di Giussani uscito l’estate scorsa ha dentro proprio la parola “rivoluzione”: si intitola infatti Una rivoluzione di sé, il che ci porta alla questione dell’autocoscienza.

Come si combatte la tentazione del borghesismo? Facendo la rivoluzione, sì. Ma quale rivoluzione? Non una rivoluzione sociale o politica in senso stretto, bensì una rivoluzione che ha a che fare col cambiamento del mio sguardo su me stesso. Questa è la vera rivoluzione: la “rivoluzione” di sé.

Ma proviamo ad andare un po’ più a fondo. Questo tema emerge in particolare nei momenti in cui ci si interroga sul proprio rapporto con il benessere e il privilegio. Parlando con giovani professionisti, persone dalla carriera avviata e talvolta brillante, affiorano addirittura dei sensi di colpa, quasi che nel guardare al proprio tenore di vita agiato, pieno di comfort, uno si sentisse in colpa, o comunque sentisse un disagio, uno stridore rispetto al proprio desiderio di vivere un’esistenza donata, grande, spesa per l’ideale. È quello che a me piace chiamare “complesso del giovane ricco”.

Questo sentimento si manifesta nel momento in cui ti svegli la mattina e, anziché provare entusiasmo per ciò che ti aspetta, ti trovi addosso questo amarognolo senso di colpa, per cui ti viene chissà perché da pensare al giovane ricco del Vangelo, quello che incontra Gesù e gli domanda cosa fare per avere la vita eterna, ma una volta sentita la risposta se ne va triste: «Sarebbe bello, ma non è per me».

Il “complesso del giovane ricco”, detto in altri termini, consiste in questo sottile scetticismo, per cui si getta la spugna prima di tentare, per paura di non essere all’altezza. Innanzitutto, va detto che l’emergere di questa malinconia, per quanto possa sembrare un limite, ha dentro qualcosa di bello, di ammirevole. È il segno di un cuore che desidera, di un cuore veramente segnato dall’incontro fatto, che sente il richiamo di qualcosa di più grande.

 

L’ingenuità di Pietro sta nella pretesa di poter dare la vita per Gesù, senza che Gesù dia prima la vita per lui

Tuttavia, voglio fare un affondo sul rischio, sulla tentazione che mi sembra anche essere intrecciata a questa comprensibile tristezza: il rischio di rimanere imprigionati in un assetto mentale che, pur avendo buone intenzioni, rimane a conti fatti ancora borghese, non esce ancora veramente da un modo di pensare borghese. Si tratta di una rivoluzione incompiuta. Ed è proprio qui che serve un taglio netto. Bisogna ghigliottinare, decapitare, perché è nella “testa” la sede del nous, della mentalità, del modo di pensare.

Chi è il borghese? Non è semplicemente chi possiede ricchezze materiali, ma colui che ha come ideale il “sentirsi a posto”, il vivere senza scossoni, senza rischi, senza una vera apertura all’ignoto dell’amore autentico. Noi possiamo sottilmente concepire il pur sincero desiderio di spenderci per l’ideale in un modo che però ancora non esce davvero dalla logica del Boy Scout, dalla logica borghese. Perché? Perché quel che in fondo, più o meno sottilmente, vogliamo e cerchiamo rimane più il sentirci a posto, più il sentirci bravi, che non un vero impeto amoroso. Quell’impeto amoroso che, quando è vero, è sempre senza calcolo, senza misura, senza la paura di perdere qualcosa.

Un particolare dell'opera "Going to work", 1943, L.S. Lowry, Imperial War Museum, Londra

Non sto dicendo che l’affetto nostro per Cristo sia insincero. Piuttosto, quel che è strano è che, pur volendo davvero bene a Gesù, uno si accorge di continuare ad avere lo sguardo centrato più su di sé che su di Lui. Nella vita non è mai bianco e nero, ci sono tante sfumature di grigio in mezzo. È proprio nell’attraversare queste sfumature, queste zone grigie, che si gioca la battaglia. Il combattimento interiore passa attraverso il riconoscimento di queste mezze misure e la scelta di uscirne, con coraggio.

Questo movimento si capisce considerando due momenti della vicenda di Pietro. Prima dell’ultima cena l’apostolo non capisce perché Gesù debba lavargli i piedi; poi, quando questo annuncia che se ne andrà, non capisce perché non può seguirlo. E quindi testardamente insiste: «Perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!».

Si può cogliere l’ironia, insieme drammatica e bonaria, della situazione: l’ingenuità di Simone, o se si vuole la sua immaturità, non consiste nel desiderio di dare la vita per Gesù, che è invece il segno della generosità impetuosa del suo cuore, del meglio di ciò che c’è in lui. L’ingenuità sta nella pretesa di poter dare la vita per Gesù, senza che Gesù dia prima la vita per lui.

 

Si capisce così il nesso tra il lasciarsi lavare i piedi, la necessità di avere i piedi lavati, e il potere di seguire Gesù. Di cosa sono simbolo i piedi nella Bibbia? Di diverse cose, certamente. Ma a noi basta l’essenziale: i piedi sono l’organo del movimento, sui piedi si cammina e si corre. Il gesto di Gesù non è un atto d’amore generico, per così dire. È un atto d’amore che ha come frutto e fine il dare ai suoi piedi nuovi, piedi rinvigoriti, piedi capaci di seguirLo, di amare di un amore finalmente simile al Suo. E questa è la promessa che ci fa: che cosa vuol dire avere parte con Gesù? Vuol dire potersi dare per Cristo, con una libertà e un gusto sempre più simili a quelli con cui Lui si dà via per noi, per me e per te.

Ecco, il contenuto dell’autocoscienza nuova, cioè dell’autocoscienza che nasce dalla fede, in un certo senso è tutto qui: in questa “rivoluzionaria” scoperta – rivoluzionaria nel senso che implica un  capovolgimento di prospettiva, rispetto a quello del mondo – che per poter essere me stesso, per poter amare, devo lasciarmi amare, devo accettare di consistere dell’amore gratuito di un Altro, di dipendere dalla continua gratuità di un Altro.

Insomma: il soggetto nuovo, il vero non-borghese, è chi vive quella virtuosa insoddisfazione di sé che si chiama mendicanza; chi è tutto pieno di quel sentimento acuto eppur lieto di non bastarsi da sé, di non esser niente da sé stesso, che è propria del mendicante. Il mendicante è il vero anti-borghese – e infatti, non a caso, don Giussani ci ha insegnato che proprio il mendicante è «il vero protagonista della storia».

Fonte: Davide Prosperi | Clonline.org

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