La scorsa settimana ho incontrato un migliaio di ragazzi di diverse scuole superiori che andranno a Siracusa per le tragedie greche in programma: Edipo a Colono ed Elettra. Dovevo raccontare loro perché ciò che Sofocle ha scritto 24 secoli fa per il teatro di Atene dovrebbe servir loro a vivere meglio. Le storie sono state e continuano a essere strumento indispensabile per l’evoluzione umana tanto quanto la posizione eretta e il pollice opponibile: per non essere paralizzato dalla paura dell’ignoto e della morte il sapiens dà senso alla realtà narrando. Per seppellire un morto, evidenza archeologica di una novità assoluta, ci vuole una storia secondo cui la vita continua. Il teatro greco, e in particolare la tragedia, è stato in questo senso un’invenzione-evoluzione decisiva: in uno spazio (la scena) e in un tempo (la rappresentazione) limitati, come è la vita, qualcuno risponde al “che (ci) faccio qui”? La parola “dramma” l’hanno infatti inventata i Greci, da uno dei loro precisissimi verbi per dire “fare”, che indicava l’agire che “definisce”. Le scelte decisive sono in questo senso sempre “drammatiche”, non perché negative ma perché de-terminano chi siamo. Non si chiama dramma perché finisce male, ma perché (de-)finisce: messo alle strette della scena temporanea (della vita) che fai? Cioè: chi sei? Scegliere è reso difficile dalla paura di soffrire, di rinunciare o di fallire, in questo senso il dramma antico è un tratto dell’educazione di dirompente e attuale necessità. Perché?
“Proprio adesso che non sono più niente, sarei un uomo?” chiede Edipo, cieco e in cerca di una città che lo accolga, nella tragedia intitolata Edipo a Colono, messa in scena dopo la morte dell’autore sul finire del V sec. a.C. Edipo aveva risolto il famoso enigma (“Chi, pur avendo una sola voce, è quadrupede, bipede e tripede?”) della Sfinge (leone con volto di donna e ali di rapace) che divorava chi, volendo entrare nella città di Tebe, non sapeva rispondere. Chi mantiene la continuità del sé (la voce) pur nello scorrere del tempo? L’uomo, aveva risposto Edipo, liberando così la città che lo aveva poi proclamato re. Ma ne era stato poi espulso perché per diventare re, senza saperlo, vittima del destino, aveva ucciso il padre e si era unito alla madre. In questa tragedia, esiliato e ramingo, si chiede se è lui ancora un “uomo”.
Chi sei quando non ti resta nulla? Che cosa ti “fa” uomo quando c’è solo il male? E così Sofocle lo immagina entrare da solo nel bosco sacro di Colono, vicino Atene, dove miracolosamente sparisce. Teseo, re della città, che lo aveva accolto nel suo doloroso vagabondaggio, è l’unico ad assistere alla scena “con una mano davanti al volto, coprendosi gli occhi, come se fosse apparso qualche terribile prodigio, di cui non poteva reggere la vista”. Durante l’incontro con i ragazzi, voluto da Fondazione Angelini che ha deciso di coprire le spese del biglietto degli spettacoli e, con la Fondazione Inda, di preparare gli studenti, Vittoria ha fatto non “una” ma “la” domanda: “perché Sofocle decide di non narrare ciò che avviene a Edipo? Che cosa ha visto Teseo?”. Voleva sapere il mistero dei misteri, che neanche Sofocle, al culmine dei suoi giorni e della sua arte, aveva osato mettere in scena: com’è la fine? Che cosa c’è dopo? Se questa è la fine (della vita), qual è allora il fine (della vita)? Dopo che Edipo ha urlato la sua sofferenza, «molto meglio non essere nati. Ma, una volta nati, fare ritorno da dove si è venuti è destino ancora migliore», accade lo straordinario: «Non si udiva più nessun grido, ed era sceso il silenzio, all’improvviso lo chiamò una voce… a più riprese, in molti modi: “Ehi tu, Edipo! Che cosa aspettiamo ad andare? È troppo tempo ormai che indugi”. Egli capì che era la chiamata del dio».
E così Edipo entra nel bosco sacro, da solo, rispondendo alla chiamata de-finitiva, nella fine il fine: il dramma umano al culmine, quando il fare è solo un lasciarsi dis-fare, la morte. La narrazione continua nella balbettante testimonianza dei presenti: «Poco dopo, quando ci fummo allontanati, ci voltammo, ci accorgemmo che non c’era più… Quale sia stata la sua fine nessuno dei mortali può dirlo, fuorché Teseo: non fu folgore scagliata da un dio, a ucciderlo, né uragano scatenatosi in quel momento, ma una guida divina… Senza pianto, senza malattia, senza dolore, se ne è andato, come nessun altro dei mortali, nel miracolo». Sofocle narra che il dolore innocente richiede una risposta divina, e immagina che tale risposta sia una chiamata divina.
Per questo Vittoria, con l’intransigente fame di destino dei suoi 17 anni vuole sapere che cosa ha visto Teseo. Dalla risposta dipende il senso della morte e quindi della vita. Teseo ha visto il divino chinarsi sull’umano: questo è il prodigio. Teseo afferma che la presenza del sepolcro di Edipo nel bosco proteggerà la città da ogni male, per questo qualcuno lo ha paragonato a Cristo. C’è però una differenza abissale. Edipo subisce il destino, Cristo lo sceglie. Edipo, anche se inconsapevolmente, ha commesso il male che gli viene imputato e fino all’ultimo non perdona nessuno, né dei né uomini né se stesso, preferirebbe infatti non esser mai nato: la sua è un’immensa solitudine.
Invece Cristo non rinnega mai la vita né la sua né quella altrui, pur essendo, lui sì, del tutto innocente, ama sia chi lo uccide (“non sanno quello che fanno”) sia il Padre (infatti dopo avergli chiesto “Perché mi hai abbandonato?” aggiunge “nelle tue mani affido la mia vita”) sia chi gli ha dato la vita (la madre sotto la croce): amare fino alla fine, ecco il fine. Edipo è sfinito e de-finito dal dolore, Cristo dall’amore. Per questo Edipo sparisce, del suo corpo piegato non resta nulla, perché per i Greci la sofferenza e la morte non possono essere divine, mentre il corpo di Cristo resta a garanzia che niente dell’esperienza umana, anche le ferite mortali con cui si farà poi riconoscere da risorto, è escluso dal divino, perché ogni vita è unica e irripetibile in ogni aspetto.
Persino il soldato romano che ha assistito all’esecuzione in croce, ignaro di chi sia quell’uomo, commenta: “Costui era veramente il figlio di Dio” (Mt 27). Che cosa ha visto se non un modo “divino” di morire? Lo stupore del re ateniese per Edipo e quello del soldato romano per Cristo nascono dall’aver assistito al dramma della vita in purezza: il conflitto tra vita e morte de-finisce l’uomo. Per quanto profondamente diversi, nell’uno e nell’altro caso però – culmine dell’arte di narrare il mistero – la morte non è l’ultima parola, ma la penultima. L’ultima è una voce, una chiamata, un incontro. La Pasqua è questa parola: passaggio. Auguro a tutti e ciascuno di ricordarlo, scoprirlo o riscoprirlo in questi giorni. Ci ritroviamo tra due settimane.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it